giovedì 3 maggio 2012

ELENA TENTI - La lettura e la storia nel romanzo Un infinito numero di S. Vassalli


«Con la lettura ci si abitua a guardare il mondo con cento occhi, anziché con due soli, e a sentire nella propria testa cento pensieri diversi, anziché uno solo. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri. Gli uomini senza la lettura non conoscono che una piccolissima parte delle cose che potrebbero conoscere. La lettura può dare cento, mille vite diverse ed una sapienza ed un dominio sulle cose del mondo che appartengono solo agli dei».


Il romanzo ha inizio narrando i primi anni di vita di uno schiavo chiamato Timodemo, il quale all’età di 18 anni  viene venduto al mercato di Napoli allo scrittore Virgilio. Dal momento in cui si trova sotto la protezione del poeta, Timodemo ha un primo contatto con moltissime opere di autori antichi e contemporanei. Questo lo porta verso una duplice libertà, in quanto Virgilio lo nomina liberto ed egli, dopo essersi arricchito con le molteplici letture, si fa più profondo e ricco di punti di vista.
L’ex-schiavo, però, decide di passare il resto della sua vita accanto a Virgilio, accompagnandolo assieme a Mecenate e ad altri aiutanti in un viaggio in Etruria. Questo non è solo un momento per conoscere la geografia e i luoghi dove vivono i Rasna, ma è soprattutto un viaggio introspettivo alla ricerca delle tradizioni e del passato di un popolo rimasto sempre nell’anonimato, e di paragonarlo al mondo dei Romani. Il momento più importante dell'immersione nelle radici di questa terra è la notte mistica passata nel tempio del dio Velthune, a rivivere, attraverso l’utilizzo di sostanze stupefacenti, il passato degli Etruschi. A questo punto, il lettore subisce un forte straniamento, in quanto non si rende più conto di dove termini l’esperienza al tempio e di quando l’autore ricominci a narrare le vicende contemporanee. Si inizia a capire infatti l’importanza del tempo: un parametro di misura creato dall’uomo per sentirsi padrone di tutto e di tutti. Gli Etruschi, con la loro infinita storia, fanno capire quanto in realtà il tempo sia impossibile da concepire, essendo un ripetersi all’infinito di fatti e di persone molto simili.
Dopo questo primo sussulto il lettore ne subisce un altro: la critica dell’opera di Virgilio, l’Eneide. Secondo l’autore, l’opera da sempre apprezzata e amata da tutti non ha nessun fondo di verità, in quanto non riporta i momenti cruenti dell’occupazione delle terre laziali da parte di Enea. Il protagonista dell’opera di Virgilio è stato divinizzato dal poeta latino, mentre in questo romanzo moderno è dipinto come un uomo crudele e senza pietà. La stessa epoca di Ottaviano non viene presentata come un momento di fioritura della cultura e dei princìpi dell’antico popolo romano, bensì un periodo saturo di rabbia e rancore provenienti dalle guerre precedenti: l'epoca insomma di una Roma abitata da uomini rozzi e senza cultura. Possiamo dunque dire che questo romanzo è un’anti-Eneide, che sfata quel mito della grande Roma e soprattutto del grande Enea. 

giovedì 26 aprile 2012

ELEONORA FERRI - da Un infinito numero di Sebastiano Vassalli: selezione antologica


Il tempo

Questo brano, collocato all’inizio del libro Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, riporta le parole della voce narrante, Timodemo, rivolte al suo interlocutore, al quale narra l’intera storia.
Il tempo riveste nel romanzo un ruolo fondamentale, preannunciato all’inizio del libro dal brano che segue, e viene presentato implicitamente anche in molte vicende: ad esempio, quando nel tempio di Mantus i protagonisti hanno la possibilità di scegliere se viaggiare nel futuro o nel passato. Il futuro per i Rasna (ovvero gli Etruschi) è ormai poco, perché essi sono destinati a estinguersi, mentre il passato nasconde segreti che Virgilio vuole trasformare in verità, per scoprire come fosse Enea, e come, con i suoi compagni, avesse fondato la città. 
Ci sono tuttavia storie che rimangono sospese fuori dal tempo - afferma Timodemo - perché i loro protagonisti ne conoscono o ne vogliono conoscere soltanto una parte. Per confermare la sua teoria, Timodemo ricorda Virgilio, che presentò la storia di Enea come un'impresa eroica e valorosa, anche se nella realtà Enea stesso era ben altro: un uomo «grasso e schifoso, più viscido di una lumaca e più puzzolente di un porco». 


“Il tempo, - disse Timodemo, - è pieno delle nostre storie e non sa cosa farsene. E anche noi, che siamo i personaggi di quelle storie, finiamo poi sempre per soffermarci su un dettaglio, e perdiamo di vista l’insieme…”
[…] “Ci sono storie, - mi rispose dopo un breve silenzio, - che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero. Sembra incredibile ma è così. Anche il mio amico Virgilio, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla...”

ELISA MONARI - da Un infinito numero di Sebastiano Vassalli: antologia



La città cogli occhi di un bambino

Nelle prime pagine del libro Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, Timodemo descrive la città di Nauplia in cui vive, e in un primo momento essa sembra quasi una città ideale, in cui le persone vivono in serenità e armonia. A Nauplia, infatti, le finestre delle case sono dipinte con i colori dell’arcobaleno, non piove mai e c’è sempre il sole.
Per Timodemo, a Nauplia i bambini sono come i cani: l’unica eccezione sta nel fatto che questi ultimi non hanno un posto dove trascorrere la notte, a differenza dei bambini, che dormono in un letto caldo nelle loro camere.
Timodemo, inoltre, descrive la maniera in cui le donne si agitano e urlano quando cade in mare un bambino e muore annegato. Si tratta di un’immagine che difficilmente si trova descritta nei libri quando l’autore vuole presentare una città. A Nauplia succede anche questo, e il narratore vuole mostrare, oltre agli aspetti positivi, anche gli eventi drammatici che accadono.
Infine, viene presentata la madre, Pasitea: una donna che si occupa del figlio senza avere un marito e che, per vivere e mantenere il figlio, fa la prostituta. Timodemo dice che gli uomini che vengono a casa sua sono sempre diversi e che le portano ogni volta indumenti o cibo, si sdraiano sul letto e ogni tanto lo prendono in braccio. Man mano che la narrazione prosegue, Timodemo entra sempre più nello specifico e nel dettaglio: dalla descrizione della città di Napulia, a quella dei bambini, fino ad arrivare alla descrizione della madre, del suo lavoro e del suo aspetto fisico.

“Mi chiamo Timodemo e sono nato in Grecia, in una piccola città di nome Nauplia, a poche miglia da Argo. Nauplia è il nome di un borgo in riva al mare; e io, quando vado indietro con la memoria fino ai giorni della mia infanzia, rivedo una strada che scende verso una spiaggia piena di scogli, e un grappolo di case imbiancate a calce, con le porte e le finestre verniciate nei colori dell'arcobaleno: il rosso, il giallo, l'azzurro, il viola, il verde smeraldo... Anche le barche dei pescatori che ci sono giù al porto sono dipinte con gli stessi colori e, in più, mostrano sulle fiancate immagini di draghi, di arpie, di divinità infernali o celesti. In quel posto c'è sempre il sole, e non piove mai. (Io, almeno, non ricordo di aver visto piovere).
Ci sono molti bambini e molti cani che gironzolano da una casa all'altra e poi ritornano sul molo del porto, i bambini per giocare tra le reti e le barche tirate in secco, e i cani per disputarsi qualche carogna di gabbiano o per stendersi al sole. Ogni tanto si sentono delle grida e si vedono delle donne che corrono verso gli scogli, dove altre donne scarmigliate indicano un punto nell'acqua: "È lì! No, è lì!" Queste cose succedono quando cade in mare un bambino; ma, in genere, nel momento in cui le donne gridano non c'è più niente da fare, perché il bambino, dopo aver annaspato per un tempo ragionevole, è andato sott'acqua. I bambini, a Nauplia, sono poco più numerosi e poco meno randagi dei cani. L'unica differenza fra le due tribù, quella dei bambini e quella dei cani, è data dal fatto che i cani, di notte, dormono dove capita, mentre i bambini dormono dentro alle case. Quasi tutti (bambini e cani) hanno dei genitori.
Io ho una madre, Pasitea, con due poppe grandi ciascuna come la mia testa, e i capelli neri tenuti sciolti che le arrivano fino in vita. Attorno a mia madre ci sono uomini sempre diversi che le portano roba da mangiare o vestiti, si sdraiano sul suo letto e qualche volta prendono in braccio anche me”.

venerdì 20 aprile 2012

ANNA DE DEO - Il bosco nella Primavera di Botticelli



Nel dipinto La Primavera di Sandro Botticelli ci sono nove figure, che si trovano su un prato erboso, ricoperto da centonovanta piante fiorite, delimitato da un boschetto. 

Le piante sono quelle che fioriscono a Firenze tra marzo e maggio, ma non sono riprese dalla realtà: sembrano piutosto delle montature. 
Il bosco che ricopre lo sfondo del quadro è ombroso, su uno sfondo azzurrino, e gli alberi sono aranci ricchi di frutti e arbusti vari.
L'arancia, simbolo dell'amore, contribuisce al significato del dipinto, mentre l'illuminazione in un solo punto del bosco crea un'atmosfera tranquilla, dai toni sommessi: quello qui raffigurato è insomma il tradizionale topos del bosco della cultura europea, ricco di riferimenti e allusioni soprattutto alla filosofia neoplatonica.

Infatti, Mercurio, al margine del bosco, collega cielo e terra con lo scettro e dunque unisce la realtà terrena a quella divina, facendosi simbolo dell'amore intellettuale, contrapposto a quello sensuale di Clori e Zefiro. Analogamente, le piante sono assunte come emblema di perfezione e rappresentate tramite idealizzazioni.  

ELEONORA FERRI - L. Sepùlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d'amore: la bellezza delle cose, la bellezza delle parole


L’amore per la lettura

Questo brano riporta il dialogo fra il protagonista del libro, Antonio Josè Bolivar e un ecclesiastico, sbarcato a El Idilio per volontà delle autorità religiose con il compiti di battezzare i bambini e di mettere fine ai concubinati. 

Il religioso aspetta per tre giorni che qualcuno sia disposto a portarlo nei piccoli villaggi ma, vista l’indifferenza degli abitanti, decide di tornare a casa. Mentre aspetta la barca, tira fuori dalla tasca un libro, immediatamente notato dal protagonista.
Questo episodio spiega l’interesse e la passione che egli ha per la lettura, nonostante le difficoltà che incontra nel praticare questa attività, che per lui è diventata una fuga dalla realtà.
Il frate enfatizzava le parole accarezzando la rovinata copertina di cartone. Antonio Josè Bolivar lo guardava affascinato, sentendosi pungere dall’invidia.
“Ha letto molti libri?”
“Un certo numero. Prima, quando ero ancora giovane e non mi si stancavano gli occhi, divoravo ogni opera che mi capitava fra le mani.”
“Tutti i libri parlano di santi?”
“No. Nel mondo ci sono milioni e milioni di libri. Sono in tutte le lingue e toccano tutti i temi, compresi alcuni che dovrebbero essere vietati agli uomini” 

Antonio Josè Bolivar non capì quella censura, e rimase con gli occhi inchiodati sulle mani del frate, grassocce, bianche, sulla copertina scura.
“Di che parlano gli altri libri?”
“Te l’ho detto. Di tutti gli argomenti. Ce ne sono di avventure, di scienza, storie di esseri virtuosi, di tecnica, di amore…”
L’ultimo caso lo interessò. Dell’amore sapeva quello che dicevano le canzoni, specialmente i ballabili cantati da Julito Jaramillo, la cui voce di guyaquilegno povero sfuggiva a volta da una radio a pile rendendo taciturni gli uomini. Secondo i ballabili, l’amore era come la puntura di un tafano invisibile, ma ricercato da tutti.
“Come sono questi libri di amore?”
“Di questo temo di non poterti parlare, Ne ho letti appena un paio.”
“Non importa. Come sono?”
“Be’, raccontano la storia di due persone che si incontrano, si amano e lottano per vincere le difficoltà che impediscono loro di essere felici.”
Il richiamo del Sucre annunciò il momento di salpare e lui non osò chiedere al frate di lasciargli il libro. L’unica cosa che gli lasciò fu un maggiore desiderio di leggere.


Antonio e la società occidentale

Il brano che segue racconta come Antonio Josè Bolivar sia totalmente estraneo alla società occidentale e come ami dedicare il suo tempo libero ai romanzi d’amore. Non è mai stato nelle grandi città europee e deve sforzarsi per riuscire a immaginare la loro modernità e grandezza. Viene dimostrato anche indirettamente il suo grande amore per la natura affermando che per lui è incomprensibile e imperdonabile che i personaggi dei libri che legge non si curino di poterla sporcare e rovinare. 

Antonio Josè Bolivar Proano dormiva poco. Al massimo cinque ore per notte, più due alla siesta. Gli bastavano. Il resto del tempo lo dedicava ai romanzi, a divagare sui misteri dell’amore e a immaginare i luoghi dove erano ambientate le storie.
Quando leggeva di città chiamate Parigi, Londra o Ginevra, doveva compiere un enorme sforzo di concentrazione per riuscire a immaginarle. Solo una volta aveva visitato una grande città, Ibarra, di cui ricordava vagamente le strade col selciato, gli isolati di case basse, simili una all’altra, tutte bianche, e la Plaza de Armas piena di gente che passeggiava davanti alla cattedrale.
Era questo il suo maggiore riferimento riguardo al mondo, e quando leggeva le vicende ambientate in città dai nomi seri e lontani, come Praga o Barcellona, gli pareva che Ibarra, col suo nome, non fosse una città adatta ai grandi amori. (….)
Ma soprattutto gli piaceva immaginare la neve. L’aveva vista, da bambino, come una pelliccia d’agnello distesa a seccare sui bordi del vulcano Imbabura, e a volte gli sembrava una stravaganza imperdonabile che i personaggi dei romanzi la calpestassero senza preoccuparsi di insudiciarla.


La bellezza delle parole 

Il brano seguente spiega l’impegno e la passione che il protagonista dedica alla lettura. Per lui leggere è un bene prezioso, una compagnia per la sua vita solitaria, distrutta in seguito alla morte della moglie. Tutto ciò che gli è più caro e indispensabile per la sua esistenza sono infatti due cose banali a cui molti non attribuiscono la giusta importanza: la dentiera e la lente di ingrandimento. 

Antonio Josè Bolivar sapeva leggere, ma non scrivere.
Al massimo riusciva a scarabocchiare il suo nome quando doveva firmare qualche documento, per esempio in periodi di elezioni, ma avvenimenti del genere si presentavano così sporadicamente che lo aveva quasi dimenticato.
Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine.
Quando un passaggio gli piaceva particolarmente lo ripeteva molte volte, tutte quelle che considerava necessarie per scoprire quanto poteva essere bello anche il linguaggio umano.
Leggeva con l’aiuto della lente di ingrandimento, il secondo suo più caro avere. Il primo era la dentiera.

mercoledì 11 aprile 2012

CHIARA SOMMAVILLA - Esiste davvero la pazzia? Cosa significa essere folli?


EVOLUZIONE DELLA FOLLIA NEL CONTESTO STORICO-SOCIALE DAL MEDIOEVO AL XIX SECOLO

Nell'antichità il giudizio sulla follia era in genere negativo: per i Greci antichi, ad esempio, pazzo era colui che perdeva il proprio controllo e la propria dignità. Nel Medioevo, invece, il folle era una figura presente nella vita quotidiana e la pazzia per lo più veniva accettata, mentre nel Rinascimento essa era considerata da un lato un'esperienza rivelatrice delle emozioni, da un altro una devianza che bisognava reprimere: nella letteratura è infatti dal personaggio di don Chisciotte, nel '600, che la follia inizia ad essere vista come un superamento della ragione, in quanto questo eroe è dotato di più fantasia delle persone "normali".
Solo dal XIX secolo la pazzia viene considerata una malattia, si approfondirono gli studi su di essa e si cerca di individuarne le cause per trovare le cure più opportune.

LA FOLLIA COME FONTE DELLA VERITÀ

Non possiamo dare un'unica definitiva spiegazione della follia. Secondo la concezione comune, essa è l'agire senza ragione, il compiere atti temerari e irragionevoli. Foucault, filosofo e saggista, sostiene invece che la follia ha la funzione di rivelare verità nascoste.
In effetti, quando i personaggi letterari sono folli, lo sono per dire o indicare una verità che si può intuire solo da una prospettiva diversa da quella normale. La letteratura rivela insomma, attraverso la parola dei "folli", verità che solo la follia riesce a mostrarci.

L'AMOROSA FOLLIA DI ORLANDO

Oltre alla follia funesta, che genera furor di guerra, delitti, sacrilegi ecc., esiste anche una follia amorosa, come quella rappresentata da Ariosto nell'Orlando furioso.
Orlando scopre l'amore segreto tra Angelica, sua amata, e Medoro, quando capita nel bosco dove essi si sono amati, vede incisi i nomi dei due innamorati e apprende da un pastore della loro unione. Egli allora impazzisce per il dolore, compie azioni insensate, correndo nudo e distruggendo tutto quello che incontra.
La follia di Orlando viene descritta in modo analitico e con precisione clinica: dalla rivelazione del reciproco amore tra l'amata e Medoro, attraverso le fasi del dubbio e della gelosia, fino allo scoppiare della pazzia. La causa che la scatena è il desiderio in Orlando di amore, che purtroppo però non è corrisposto.
Ariosto chiama insomma follia quelle forze presenti in ogni uomo, che non sono controllabili dalla ragione. Orlando diventa furioso non riuscendo a governare la propria follia dal momento che il suo senno è accecato dalle illusioni amorose.

LA PAZZIA È DENTRO OGNUNO DI NOI

Una differente lettura del fenomeno della follia ci arriva da Erasmo da Rotterdam, che nell'Elogio della follia ce la presenta in modo positivo, come forza vitale degli uomini, grazie alla quale è possibile l'illusione sulla vita reale, altrimenti detestabile.
Erasmo afferma che gli uomini sono stolti poiché cercano di allontanarla, nonostante sia la follia la vera fonte di felicità e, spesso, perfino più saggia della stessa saggezza.
Erasmo ci parla peraltro di due pazzie: la pazzia negativa che comprende l'avidità, la brama di possesso e le violenze, e la pazzia positiva, che è la capacità di sognare e di avere delle illusioni.

Attualmente nella nostra società la pazzia è considerata una malattia: perciò sono state create delle apposite cliniche psichiatriche. Questi centri, a differenza dell'antichità, non sono posti dove i malati vengono rinchiusi e torturati, ma dove il malato può recarsi di sua spontanea volontà, se lo ritiene necessario. Anche se a causa di questa malattia spesso si sentono accadere episodi terribili, di solito in un contesto familiare, molti malati sono riusciti, grazie all'aiuto degli psichiatri, a guarirne.

venerdì 6 aprile 2012

Filippo Baietti, il bosco dei cavalieri del santo Graal in Italo Calvino

Italo Calvino, Il cavaliere inesistente

Nel VII capitolo del romanzo Il cavaliere inesistente di Italo Calvino si parla di un inquietante bosco nel momento in cui Agilulfo e Torrismondo discutono sulla verginità di Sofronia, perché il giovane cavaliere dice di essere suo figlio. Torrismondo sostiene infatti che Sofronia lo abbia concepito con uno dei cavalieri dell’Ordine del Santo Graal, poiché ella andava a giocare ogni giorno con loro nel fitto della foresta che circondava il castello in cui abitava, ed era stato appunto a causa di questi giochi fanciulleschi che, appena tredicenne, era rimasta incinta.

Il bosco a cui si riferisce questo flashback è un luogo cupo e tenebroso, dove vivono i cavalieri che, in una misteriosa relazione di magia con la selva, incutono paura e timore sia al lettore che al protagonista del brano, Torrismondo.

Tale foresta per i cavalieri del Santo Graal da un canto è un rifugio dove possono trovare le fonti necessarie per il sostentamento, dall'altro serve a fortificare la loro volontà di isolamento dal mondo, perché è il luogo ideale per dedicarsi alle preghiere, ma soprattutto per migliorare le proprie arti di combattimento. Tuttavia, siccome i cavalieri si dimostrano minacciosi, anche la selva pare cupa e ostile nei confronti di Torrismondo.

Massimiliano Petrasek-Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto (1595-1596)



Nella storia dell’arte il paesaggio e in modo particolare il bosco hanno avuto una posizione rilevante, come si può notare nel quadro Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio. In primo piano vi è la rappresentazione della sacra famiglia e dell’angelo: una scena semplice, intima, ma descritta con accurato realismo. Si notino ad esempio le penne nere delle ali dell’angelo e il pentagramma tenuto in mano da S Giuseppe. 



La nostra attenzione, però, si rivolge al boschetto, alle spalle dei personaggi: Caravaggio per la rappresentazione della natura che circonda la sacra famiglia ha usato colori autunnali; il boschetto sullo sfondo, con un laghetto appena accennato, contrasta con il verde fogliame posto in primo piano, su cui giace la Madonna con il bambino, qui rappresentata come una normale madre che, stanca del lungo viaggio, cerca di proteggere il suo bambino.
Infine, sempre inerente al bosco, quello che è da notare è il fatto che, oltre ai colori autunnali, un poco spenti, che contrastano con le tinte accese delle figure, il boschetto pare un luogo pacifico,  che con la sua natura accoglie e protegge la Sacra Famiglia.

Giulia Carnevali - Cervantes, Don Chisciotte (1605-1615)


Il protagonista della storia è un hidalgo spagnolo di nome Alonso Quijano, ossessionato dai romanzi cavallereschi,  ai quali si dedica nei momenti di ozio. La loro lettura lo appassiona  talmente, da trasportarlo in un mondo irreale e fantastico, in cui si trasforma in un cavaliere errante con la missione di difendere i deboli e di riparare i torti.
Alonso diventa così il cavaliere Don Chisciotte de la Mancha e inizia a girare tutta la Spagna con il suo cavallo un po’ malandato. Nella sua follia, trascina con sé un contadino del luogo, Sancho Panza, al quale promette il governo di un’isola, a patto che gli faccia da scudiero.
«..a questo punto soffiò un po’ di vento e le grandi pale cominciarono a muoversi e Don Chisciotte disse, vedendo ciò: quand’anche muoviate più braccia del gigante Briareo,me la pagherete!..»
Ormai immedesimato nella figura di un valoroso cavaliere, l’hidalgo spagnolo è talmente immerso nelle sue visioni, da arrivare al punto di scambiare i mulini a vento per grossi giganti da sconfiggere; allo stesso modo, egli idealizza anche il paesaggio intorno a lui, e scambia per boschi intricati e folti luoghi di campagna in realtà un po’ aridi, e solo con qualche cespuglio qua e là, quali sono quelli tipici dell’altopiano di Castiglia nella Mancha, situata nel centro della Spagna.
Dunque, i luoghi descritti in questo romanzo possono essere contrapposti ai loci amoeni dell’Aminta di Tasso o al bosco dell’Orlando Furioso, poiché mentre questi sono completamente frutto dell'immaginazione degli autori, quelli del Don Chisciotte sono sì snaturati dall’immaginazione del personaggio principale, ma pur sempre ispirati a una realtà storica concreta.

lunedì 2 aprile 2012

Alice Massi - La selva dei suicidi


 Il Canto XIII dell’Inferno di Dante Alighieri (1307 circa)


Nel canto XIII dell'Inferno, Dante e Virgilio giungono in una selva intricata e oscura, in cui non si scorge alcun sentiero. Gli alberi del bosco hanno foglie scure, rami nodosi e contorti e non hanno frutti ma spine velenose. Tra rovi così pungenti, afferma Dante, vivono le Arpie, mostri semiumani che, appollaiati sugli alberi, emettono orribili lamenti. In questo bosco cupo e ostile, risuonano lamenti e gemiti, ma non si vede chi li emetta. Dante strappa un ramo da una pianta, e vede uscire sangue scuro, mentre risuona una voce gracchiante, affaticata: la selva in cui si trova il poeta è infatti la selva dei suicidi, che sono qui trasformati in piante per l’eternità. Il bosco, oscuro e inquietante, è poi percorso da cagne nere, affamate e veloci, che rincorrono gli scialacquatori e spezzano i rami delle piante, aggravando le pene dei suicidi.




In questo canto Dante propone un’immagine della selva come luogo di dolore e sofferenza, ma anche di grande inquietudine. E’ un posto disabitato e isolato, come testimonia l’assenza di un sentiero, ma è al contempo spaventoso e agghiacciante, in particolare per i rumori sinistri che vi risuonano e per le piante che versano sangue marcio, nero. La negatività del bosco è espressa dalla triplice anafora nella seconda terzina, costruita con frasi antitetiche: “Non fronda verde, ma di color fosco, non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti, non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco”. Il bosco che descrive Dante è un vero e proprio locus horridus, spaventoso e innaturale. Tre sono i particolari che mostrano l’innaturalezza del bosco: l’assenza di un sentiero, i gemiti e i lamenti, la presenza delle Arpie e delle cagne. Questo locus horridus, che Dante riprende dal celebre episodio di Polidoro narrato da Virgilio nell’Eneide (canto III), assume qui però un significato allegorico cristiano: la selva diventa simbolo dell’anima priva della luce di Dio, del traviamento e del disordine morale. In Dante poi, l’intervento del meraviglioso, a differenza che nell’Eneide, è sostenuto da un rigoroso concetto morale: con il suicidio l’uomo ha rifiutato il corpo, che è stato creato da Dio, il quale per questo lo trasforma in una creatura arborea e innaturale.

Michele Gandolfi - Il bosco dell’Aminta (1573)


Nell’Aminta di Torquato Tasso, così come in tutti i poemi pastorali precedenti e successivi, le scene che narrano l’amore del pastore Aminta per la ninfa Silvia si svolgono all’interno di un “locus amoenus”: un bosco dove la natura vive incontaminata e in perfetta sintonia con l’uomo; un bosco rigoglioso, pieno di alberi e prati fioriti, che rimanda alla tradizione dell’età aurea, ormai perduta dagli uomini, in cui si viveva serenamente.
L’unica legge che vige all’interno di questo luogo ideale è quella della natura, dedita all’amore e che invita ad esso, come suggerisce il motto “S'ei piace, ei lice", ovvero "Se ti piace, è lecito”.

Sofia Di Sarno,Martine Giuliani,Elisa Monari,Lucrezia Serra,Elena Tenti - Boschi dal Medioevo ad oggi (2)


Il bosco di Nastagio degli Onesti (1351)

Nella celebre novella del Decameron, la selva di Classe incornicia le vicende, che vedono come protagonista un giovane ragazzo della borghesia di Ravenna. Solitamente, nella tradizione medievale, le storie erano racchiuse da un luogo subito rappresentato totalmente ostile oppure accogliente: in questo racconto, invece, la barriera tra “locus amoenus” e ”locus horridus” è molto labile. All’inizio, infatti, il bosco è un elemento positivo di pace, tranquillità e di evasione; ma verso la metà della novella, quando il ragazzo vede la scena infernale, il bosco comincia a mutare e diventa il luogo perfetto per tramare malvagi pensieri.
In verità, in questo episodio non si capisce se il bosco è veramente un elemento in continua mutazione, oppure se è frutto di uno sguardo alterato dalla follia d’amore e dalla solitudine. Certamente, però, la cornice della selva gioca un ruolo molto importante, perché essa è la mediatrice dei pensieri e sentimenti non solo del protagonista, ma indirettamente anche del lettore.

Concerto campestre (1510 circa)


È un'opera sicuramente dipinta da Tiziano Vecellio, anche se sono stati avanzati dubbi sul fatto che possa essere di Giorgione. Quest’ultimo, però, non avrebbe mai rappresentato in questo modo corpi di donne nudi; quindi, si può affermare quasi con certezza che il quadro sia di Tiziano, che comunque riprende una tematica cara al mondo di Giorgione.
Infatti, è questo il primo quadro di Tiziano in cui il ruolo del paesaggio è sostanziale. In questo paesaggio agreste sono presenti quattro soggetti: due donne nude, una che versa dell’acqua e un’altra, seduta su un drappo bianco, che suona il flauto, accompagnando il giovane di fronte a lei, che suona il liuto, seduto di fianco ad un altro uomo. Il panorama del bosco è determinante per precisare l'equilibrato rapporto fra natura e uomo. Alcuni critici sostengono infatti che le due donne nude siano delle allegorie, ovvero che siano in realtà due ninfe, che personificherebbero appunto lo spirito della natura. I due uomini invece, essendo vestiti, fanno parte della cultura e dell’epoca di quel tempo, e non guardano le due ninfe, come se non potessero vederle. La ninfa seduta ha in mano un flauto, e ciò significa forse che la musica, intesa come capacità di creare armonie e melodie, appartiene alla natura.
Il quadro è quindi una metafora della musica, rappresentata dagli uomini che suonano e dono che ci dà la natura, raffigurata invece dalle due ninfe.

La selva di Saron (1575)

La selva di Saron è descritta nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, ed è il luogo dove i cristiani si recano per prendere la legna. La selva è però sotto l’incantesimo di Ismeno, un mago malefico che la popola di demoni. Perciò, i cavalieri di Goffredo di Buglione, una volta arrivati nella selva, scappano impauriti, perché vi sentono rumori strani e spaventosi.
Infine, Tancredi si reca nella selva e, con coraggio, percuote con la spada un cipresso, dal quale esce la voce di Clorinda. Secondo questa voce, lo spirito della donna amata, uccisa da Tancredi per errore in duello, si trova all’interno dell’albero: in realtà, si tratta solo di un’illusione della malefica magia di Ismeno.
La selva incantata è dunque costituita da alberi e piante di ogni genere, in cui i cavalieri rivedono i propri tormenti e le angosce che  turbano le loro menti. Viene descritta come un “locus horridus”, un luogo spaventoso, fonte di ostacoli e di terrore per chi vi entra. Il “locus horridus” si contrappone al “locus amoenus”, ovvero il luogo luminoso, in cui regna la serenità e in cui gli uomini possono abbandonarsi ai propri piaceri.
Infine, la selva rappresenta il luogo della seduzione e della dispersione, dovute a tutti gli ostacoli che la natura contrappone al compimento dell’impresa.

La foresta di Macbeth (1605circa)                                                                                       

La tragedia di Shakespeare Macbeth è ambientata in Scozia, e narra la storia di Macbeth, potente generale, e del suo declino, causato dalla moglie e dalla sua voglia di potere. Il sovrannaturale è presente sin dall'inizio dell'opera, quando al protagonista si presentano tre streghe, che gli profetizzano il suo futuro e gli predicono che diventerà re di Scozia al posto di re Duncan.
Il bosco in questione non è un vero e proprio bosco, ma è costituito dall'esercito dei “buoni”, guidato da Macduff e Malcom, che si travestono con rami e marciano contro il castello di Macbeth. Questo crea terrore in Macbeth, proprio perché la visione della foresta che si muove è talmente sovrannaturale, da portarlo ad impazzire. In tale senso, la foresta è anche in questo testo luogo del soprannaturale, proprio come in molte opere letterarie di tutta Europa.
   

Caperucita en Manhattan (1990)

In questo romanzo, Martin Gaite riscrive la storia di Cappuccetto Rosso a noi tutti nota, ambientandola ai giorni nostri, e prendendo come protagonista la piccola Sara Allen, una bambina di dieci anni vivace e sognatrice. Sara intraprende un viaggio per andare a trovare la sua adorata nonna, ma non più in un bosco vero e proprio, come lo intendevano Perrault o i fratelli Grimm nelle prime versioni della storia, ma nel “bosco” simbolico di Brooklyn. E in effetti, se mai una ragazzina si trovasse a fare un percorso da sola e ad affrontare delle insidie al giorno d’oggi, quale miglior posto di una città piena di vita e caos? Da un canto, il bosco di Brooklyn presenta molte novità che incuriosiscono e rendono felice Sara, in una scena che riproduce quella di Cappuccetto Rosso che raccoglie i fiori e saltella felice sul sentiero che la porterà dalla sua nonna. D’altra parte, vi sono anche molte insidie, come Mr. Wolf , proprietario di una pasticceria pronto a tutto pur di riuscire nel suo intento di diventare sempre più ricco, il quale inganna la bambina per arrivare prima a casa della nonna e rubarle la ricetta della torta.
Possiamo inoltre aggiungere che il racconto è sì ambientato a New York, ma del resto Central Park è un luogo ottimale dove ricreare un bosco.

domenica 1 aprile 2012

Melissa Desiderio,Eleonora Ferri,Faatma Jendoubi,Vittoria Torresani,Elena Vivit-Boschi dal Medioevo a oggi



La selva di Dante: Inferno I (1307circa)


Nel primo canto della Divina Commedia di Dante è descritta la selva oscura nella quale si addentra il poeta, simbolo della corruzione e del peccato. Egli nel mezzo del cammin di nostra vita prende consapevolezza della condizione negativa in cui è entrato quasi inconsapevolmente, e che è anche la condizione di corruzione dell'intera umanità.
Nel periodo in cui scrisse l'opera, l'Alighieri viveva un momento di crisi: la Divina commedia rappresenta appunto un cammino di purificazione per lui e per tutta l'umanità.
Questa selva appare così amara che la morte è una cosa appena peggiore. Durante il suo cammino attraverso la selva, Dante incontra tre belve, che raffigurano per allegoria i tre peccati più gravi: incontinenza, violenza e frode. Dopo l’incontro con le tre belve, Dante vede accorrere in suo aiuto Virgilio, il quale rappresenta la ragione umana e quindi la via della salvezza, poiché lo condurrà attraverso tutto l’Inferno e  il Purgatorio.
La selva è un bosco fitto, esteso, buio (cosa che richiama la morte); è popolata da animali feroci e il pericolo vi è sempre in agguato. Non vi sono sentieri né percorsi segnati: è quindi un luogo privo di certezze.
Questa visione negativa della selva come locus horridus richiama alla mente una situazione da cui è difficile uscire sia fisicamente che psicologicamente. Nella selva penetra infatti con difficoltà la luce, simbolo di vita. Contrapposto alla selva è il luogo aperto, illuminato dal sole, che è invece rassicurante, perché consente l'orientamento.


La Tempesta di Giorgione (1505-1508 circa)




La tempesta di Giorgione , uno dei quadri più famosi del Cinquecento, è un dipinto olio su tela databile al 1505 circa e conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia.
La novità consiste nell’indagine del paesaggio e della meteorologia. I personaggi sono assorti, non c'è dialogo fra loro, e sono divisi da un ruscelletto. Sullo sfondo, invece, si nota un fiume che costeggia una città, passando sotto un ponte.
La natura rappresentata assume un ruolo centrale: il cielo è livido e nuvoloso, fortemente scuro, derivato da Leonardo Da Vinci, ed è trafitto da un lampo luminoso che si abbatte sul paese, secondo un'iconografia che compare qui per la prima volta nella storia artistica.
È un’immagine molto naturalistica, ma anche magica e misteriosa, in cui viene rappresentata una vegetazione che fa da cornice all’architettura; tale vegetazione non è ricca e folta, ma alberi e cespugli sono disposti vicino agli altri elementi compositivi.
Ciò che di più cattura la nostra attenzione sono i due alberi, tipici dell’Italia Centrale, posizionati rispettivamente quasi alle estremità del quadro.

La fuga di Angelica nell'Orlando Furioso (1532)

(L. Ariosto, Orlando Furioso, canto I)


Angelica fugge fra boschi spaventosi e bui, per luoghi inabitati, solitari e selvaggi. Il sentir muoversi le fronde degli alberi l'ha impaurita e ad ogni ombra che vede teme sempre di essere inseguita. Fugge da ogni animale e sospettosa trema di paura: e a ogni ramo che tocca passando, crede di cadere nelle fauci della bestia feroce. Vaga giorno e notte, finché si ritrova in un bosco leggiadro, leggermente mosso da un vento fresco. Qui le sembra di essere al sicuro e decide di riposarsi un po'.
Il bosco in cui fugge Angelica, dunque, è un luogo che le incute timore e paura; forse molto simile a quello dove fugge Biancaneve, per esempio: qui ogni cosa può sembrare qualcosa di pericoloso solamente per frutto dell'immaginazione. Tuttavia, il giorno seguente Angelica si ritrova in una parte del bosco ben diversa: la selva si presenta ora soleggiata, attraversata da due dolci ruscelli che con il loro lento scorrere diffondono un'armonia dolce da ascoltare. Qui Angelica non ha nulla da temere, e si lascia cadere sull'erba per riposarsi dal lungo vagabondare a cui è stata costretta.


D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio (1935)

Il luogo dove è ambientata la storia è il Bosco Vecchio, una foresta irreale ed immaginaria, popolata dai geni, creature benevole che risiedono all'interno dei tronchi e soffrono a causa del continuo taglio degli alberi. In questo bosco ogni elemento naturale ha la propria anima: esso è un luogo ricco di odori, colori, suoni, in cui si possono sentire parlare i fiumi, gli alberi, le foglie, gli uccelli, il vento, e in cui tutto è animato e magico.
Grazie alle minuziose descrizioni dell'autore, capiamo che il bosco è un luogo che può essere veramente apprezzato e compreso unicamente dai bambini. Essi, grazie alla loro fantasia e alla loro innocenza, riescono a cogliere fino in fondo i segreti della natura. Gli adulti, invece, come l'ex colonnello Procolo, personaggio severo, freddo e povero d'animo, non possono comprendere la natura del bosco.
In questo libro, è evidente l'intento dell'autore di trasmettere un messaggio importante: la natura va sempre rispettata, e viene quindi condannato il fenomeno della deforestazione e della distruzione violenta delle foreste in tutto il mondo.

Italo Calvino, Il bosco sull’autostrada (1963)

Il racconto "il bosco sull'autostrada" è tratto dal libro Marcovaldo ovvero Le stagioni in città di Italo Calvino.
A casa di Marcovaldo è finita la legna e la famiglia cerca di riscaldarsi con la poca rimasta. Marcovaldo decide così di andare a legna, anche se sa che in città è difficile trovarne. Intanto uno dei suoi figli, Michelino, legge un libro di fiabe, nel quale si parla del figlio di un falegname che usciva con un'accetta e andava nel bosco a fare legna. Così Michelino e i suoi fratelli capiscono che bisogna dirigersi proprio lì, nel bosco, anche se, abitando in città, nessuno sa esattamente come sia fatto. I bambini decidono di uscire lo stesso e durante il loro percorso vedono solo case e la strada che, piano piano, si trasforma in autostrada. Ai lati di essa, i bambini trovano il loro bosco, dai tronchi fini, diritti o obliqui, con chiome piatte e estese, e dalle forme più strane e dai colori più originali: ma questi "alberi" non sono altro che cartelloni pubblicitari.
Il racconto di Calvino vuole quindi farci capire come chi viva e cresca in città non conosca a pieno e in profondità la natura, non avendo l'opportunità di stare a contatto con essa. Nel brano c'è perciò un contrasto tra il valore positivo della natura e quello negativo della vita nelle città dei nostri giorni. Viene così messo in risalto il rapporto natura-città e, con esso, l’autore vuol farci capire quanto, ormai, la natura sia stravolta dalle città industriali. Nel racconto di Calvino, infatti, non si parla di un vero bosco, ma di uno spazio artificiale, con il quale tuttavia veniamo a contatto più spesso di quanto non ci capiti con la natura. 

martedì 21 febbraio 2012

MASSIMILIANO PETRASEK - Recensione: Il vecchio che leggeva romanzi d'amore di Luis Sepùlveda



Il romanzo “il vecchio che leggeva i romanzi d’amore” è un romanzo d‘avventura ambientato nella foresta amazzonica. 
Ho trovato il libro abbastanza interessante e di facile lettura . Ciò che mi ha colpito principalmente è stato il confronto tra la società degli indigeni, gli Shuar, e la civiltà moderna rappresentata dai gringos, un gruppo di bracconieri e uomini senza scrupoli nei confronti della natura. 
Il protagonista del romanzo è un vecchio di nome Josè Antonio Bolivar, un occidentale che però prova per la terra in cui vive un grande senso di amore e rispetto, come solo gli Shuar possono avere. La figura di Antonio contrasta con quella del grasso sindaco che Sepùlveda non chiama mai per nome, ma solo col nomignolo di Lumaca, che ben descrive i sentimenti ch'egli provoca. 
In effetti, i protagonisti del romanzo sono fissi: non cambiano quindi pressoché mai il loro carattere e il oro modo di agire, sicché anche il giudizio dello scrittore nei loro riguardi risulta costante, ora nella “simpatia”, ora nell'“antipatia”. 
Il vecchio protagonista è dunque, come si accennava, un occidentale, che però ha nutrito il desiderio di vivere come un indigeno. Ben presto tuttavia questo sogno si spezza, in quanto Antonio si accorge che la sua mentalità e i suoi rapporti con la natura sono ben diversi da quelli dei nativi dell'Amazzonia. 
Un'episodio che ben rappresenta questa sua non reale appartenenza agli Shuar avviene quando per caso uccide una bestia feroce con un fucile: un gesto apparentemente di poco valore, ma per gli Shuar molto grave, perché per loro sarebbe accettabile solo se compiuto con le proprie mani o con un pugnale. Sepùlveda, per descrivere il distacco tra Antonio e gli indigeni, usa poche parole, ma di grande espressività: “Era come loro ma non era uno di loro“. 
Un‘altra parte del libro che mi ha colpito è stata la fine, quando il vecchio spara al tigrillo che costituiva una minaccia per i suoi compaesani e lo uccide: infatti, Antonio dopo aver ucciso l‘animale non si sente affatto vincitore; anzi si sente sconfitto e prova un grande senso di amarezza, sia perché ancora una volta ha usato l’arma che è stata la principale causa del suo allontanamento dagli Shuar, sia perché a voler uccidere l’animale non è stato lui, ma il sindaco e i Gringos. 
Sepulveda nei confronti del vecchio protagonista prova in conclusione un grande senso di ammirazione e rispetto, come testimoniano anche le ultime parole del romanzo: «Il vecchio la accarezzò ignorando il dolore del piede ferito e pianse di vergogna, sentendosi indegno, umiliato, in nessun caso vincitore di quella battaglia».

SOFIA DI SARNO - La natura e gli estranei: antologia da Sepùlveda



Nel romanzo di Luis Sepùlveda Il vecchio che leggeva romanzi d'amore ho apprezzato particolarmente i brani che mettono in risalto i cattivi comportamenti che possono avere gli uomini bianchi quando si trovano fuori dalla loro patria, come per esempio la prepotenza. Secondo l'autore, i loro atteggiamenti offendono la natura, portando anche alla morte di alcuni animali che, se non vengono infastiditi, non attaccano di certo gli uomini.


Gli estranei 




Antonio José Bolivar, dopo cena, inizia a ricordare come era iniziata la sua vita a El Idilio e in particolare un episodio che lo porterà a disprezzare ancora di più la figura del Sindaco della località, oltre che i gringos americani, che non sembrano non saper rispettare nulla. 



Di malumore si mise la dentiera e masticò i pezzi rinsecchiti di fegato. Aveva sentito dire spesso che con gli anni arriva la saggezza, e aveva aspettato, fiducioso, che questa saggezza gli desse quello che più desiderava: la capacità di guidare la direzione dei ricordi per non cadere nelle trappole che questi spesso gli tendevano. 
Ma ancora una volta cadde nella trappola e smise di sentire il rumore monotono dell’acquazzone. 
Erano passati vari anni dalla mattina in cui, al molo di El Idilio, era arrivata un’imbarcazione mai vista prima. Una lancia piatta, a motore, che permetteva di viaggiare comodamente a circa otto persone, sedute a due a due invece che nella scomodissima fila indiana dei viaggi in canoa. 
Con la nuova imbarcazione arrivarono quattro nordamericano provvisti di macchine fotografiche, viveri e arnesi di uso sconosciuto. Rimasero ad adulare e intossicare di whisky il sindaco per vari giorni, finché il ciccione, tronfio di orgoglio, si avvicinò con loro alla sua capanna, indicandolo come il più grande conoscitore dell’Amazzonia. 
Il grassone puzzano di alcool e non smetteva di chiamarlo suo amico e collaboratore, mentre i gringos fotografavano non solo loro due, ma tutto quello che capitava davanti alle macchine fotografiche. 
Senza chiedere il permesso entrarono nella capanna, e uno di loro, dopo aver riso a crepapelle, insistette per comprare il ritratto che lo mostrava accanto a Dolores Encarnacion del Santisimo Sacramiento Estupiñan Otavalo. Il gringo osò staccare il quadro dalla parete e metterselo nello zaino, lasciandogli in cambio un pugno di banconote sul tavolo. 
Fece fatica a frenare la rabbia e a tirare fuori le parole. 
“Dica a quel figlio di puttana che, se non rimette subito al suo posto il ritratto, gli faccio volare via le palle con due colpi di doppietta. E sappia che la tengo sempre carica.” 
Gli intrusi capivano lo spagnolo, e non ebbero bisogno che il ciccione spiegasse nel dettaglio le intenzioni del vecchio. Il sindaco, in tono amichevole, chiese loro comprensione, adducendo che i ricordi erano sacri in quelle terre, e aggiunse che non dovevano aversene a male, perché gli ecuadoriani, e lui in particolare, apprezzavano molto i nordamericani, quindi, se si trattava di portarsi via qualche bel ricordo, si sarebbe incaricato lui stesso di trovargliene. 
Non appena il ritratto fu tornato al suo posto, il vecchio alzò i cani della doppietta e ordinò loro di andarsene. 



L’amore degli shuar 




Esiste una piccola tribù che popola l’Amazzonia, chiamata Shuar. All’interno della loro comunità l’amore è visto in una forma molto diversa da quella che noi occidentali conosciamo e Antonio José Bolivar ha potuto constatarlo in prima persona 


Durante la sua vita tra gli shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l’amore.
Non era uno di loro, e pertanto non poteva avere mogli. Ma era come uno di loro, e quindi lo shuar anfitrione, durante la stagione delle piogge, lo pregava di accettare una delle sue spose per maggiore orgoglio della sua casta e della sua casa. 
La donna offertagli lo conduceva fino alla riva del fiume. Lì, intonando anents, lo lavava, lo adornava e lo profumava, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare su una stuoia, coi piedi in alto, riscaldati dolcemente da un fuoco, senza mai smettere di intonare anents, poemi nasali che descrivevano la bellezza dei loro corpi e la gioia del piacere, aumentato infinitamente dalla magia della descrizione. 
Era amore puro, senza altro fine che l’amore stesso. Senza possesso e senza gelosia. 
“Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono.” 
Così gli spiegò una volta il suo compagno Nushiño. 


La perversità umana 




Da tempo una femmina di tigrillo minaccia la popolazione de El Idilio e così Antonio José Bolivar, il sindaco e altri uomini decidono di andare a scovarla nella sua tana per ucciderla e porre fine alle paure dei cittadini. Dopo un faticoso viaggio, però, il protagonista si ritrova da solo faccia a faccia con l’animale. 


In alto, sul bordo del declivio, la femmina muoveva la coda freneticamente. Le piccole orecchie vibravano captando tutto i rumori della foresta, ma non attaccava. 
Sorpreso, il vecchio si mosse lentamente fino a recuperare la doppietta. 
“Perché non attacchi? A che gioco stai giocando?” 
Sollevò i cani della doppietta e si accostò l’arma al volto. A quella distanza non poteva fallire. 
In alto la femmina non gli staccava gli occhi di dosso. All’improvviso ruggì, triste e stanca, e si lasciò cadere sulle zampe. 
La debole risposta del maschio gli arrivò da molto vicino, e non fece fatica a trovarlo. 
Era più piccolo della femmina, e stava sdraiato al riparo di un tronco vuoto. Era ridotto pelle e ossa e aveva una coscia quasi strappata dal corpo da un colpo di fucile. L’animale respirava a stendo, e l’agonia sembrava dolorosissima. 
“Volevi questo? Che gli dessi il colpo di grazia?” gridò il vecchio verso l’altura, e la femmina si nascose tra le piante. 
Si avvicinò al maschio ferito e gli accarezzò la testa. L’animale alzò appena una palpebra. Esaminando con attenzione la ferita vide che cominciavano a mangiarselo le formiche. 
Appoggiò le due canne del fucile al petto dell’animale. 
“Mi dispiace, compagno. Quel gran figlio di puttana di un gringo ci ha fottuto la vita a tutti”, e sparò. 



LUCREZIA SERRA - La pazzia: perdita della natura umana o risorsa di una sapienza alternativa?

La percezione della pazzia è sempre stata la medesima col passare del tempo? 

Approfondendo la storia della pazzia, si può notare che dal Medioevo all’età moderna è cambiato radicalmente il modo in cui essa veniva percepita. Nel Medioevo il pazzo era considerato posseduto da “spiriti maligni”, venivano perciò tenuti per pazzi tutti coloro che eccedevano nella manifestazione dei propri sentimenti. Alle cosiddette persone indemoniate veniva vietato l’ingresso in chiesa e molto spesso, soprattutto le donne, venivano bruciate al rogo. 
Dopo il Medioevo, tra il XVI e il XVII secolo, però, si iniziò a considerare il pazzo come un diverso, e quindi ad emarginarlo. Venne infatti istituito l’Hôpital Général, in cui venivano rinchiusi i folli per essere curati, ma soprattutto perché non stessero a contatto con i sani. 
A partire dal’età moderna, seppur soltanto in letteratura, si iniziò invece a considerare il folle come una persona con qualcosa in più rispetto ai savi: la fantasia. 


Le cure per coloro che venivano definiti folli 

Nell’ '800 si iniziò a pensare alla pazzia come a una vera e propria malattia clinica, perciò si cercarono i metodi più idonei per curarla. Nell’Hôpital Général i metodi terapeutici in uso erano soprattutto delle docce fredde, la camicia di forza, le costrizioni, l'elettroshock e lo shock insulinico: essi non servivano realmente a curare la pazzia, ma facevano patire un tale dolore al pazzo che nel momento successivo egli diveniva più trattabile e tranquillo. 
Col passare del tempo, e con l’avanzare degli studi scientifici, questi metodi vennero aboliti, per passare, a partire dagli anni '50 del '900, agli psicofarmaci. Vi erano principalmente due tipi di pillole: una, come la chiameremmo noi oggi, antidepressiva, e una invece che fungeva da calmante, e cioè l’opposto della prima.

“L’elogio alla follia” di Erasmo da Rotterdam
Il filosofo che con più originalità parla di follia è senza alcun dubbio Erasmo da Rotterdam. Nell’Elogio della follia egli spiega che nella società in cui viveva erano considerati pazzi tutti coloro che cedevano ai sentimenti, poiché si pensava che i saggi non dovessero provare emozioni, ma pensare ed agire in modo distaccato ed obbiettivo. Erasmo critica duramente questo modo di pensare, e anzi in un certo senso predilige il pazzo al savio, perché afferma che un saggio senza alcuna emozione non potrebbe mai prendere una decisione giusta, ma sarebbe come una statua: all’apparenza bellissima, ma vuota e fredda all’interno. 

Don Chisciotte e Astolfo
Un altro grande personaggio da citare parlando di pazzia è senza dubbio Don Chisciotte, un vecchio diventato pazzo a furia di leggere romanzi e storie di guerra. Egli pensa perciò di essere un cavaliere e vede nelle cose più naturali (come nel celebre scontro con i mulini a vento) degli imponenti avversari da sconfiggere. 
Egli muore nel momento in cui gli torna il senno: analogamente, Ariosto smette di nominare Astolfo dopo che, andato sulla luna per cercare il senno di Orlando, ritrova anche il suo. 
Nelle due opere del ‘500, dunque, abbiamo due chiari esempi di come i pazzi, nella letteratura, siano considerati qualcosa di speciale, e di come, persa la pazzia che li contraddistingue, diventino talmente ovvi, scontati e quasi noiosi da non meritare di essere soggetto di ulteriore attenzione.

ALICE MASSI - Il mondo aristocratico e quello borghese nel Decameron


LO SPAZIO
Sono molti e diversi i luoghi in cui sono ambientate le novelle del Decameron, vengono infatti descritti palazzi, residenze di campagna, città e corti.
 Nella novella di Andreuccio da Perugia, ad esempio, vediamo l’affollata fiera di cavalli nella città di Napoli, gli stretti vicoli, le fogne ad aria aperta nella parte più malfamata della città, il porto , la chiesa maggiore frequentata più da ladri di tombe che da fedeli.  La novella si ambienta in una Napoli pericolosa e al contempo piena di vita, in un’epoca in cui la città era ancora un importante centro culturale. 
In un ambiente non borghese, bensì nobiliare, si svolge la novella di Federico degli Alberighi. La sua storia è ambientata inizialmente nella città di Firenze, dove si tengono ricevimenti, tornei e duelli, quindi, dal momento che Federico ha dilapidato le sue ricchezze ed è costretto a ritirarsi nel suo podere in campagna, qui si svolge la seconda metà della novella. La campagna viene descritta sia come un luogo di svago per i ricchi, sia come una misera fonte di sostentamento per i poveri. Qui Federico si occupa del suo orto, e sopravvive procurandosi il cibo con la caccia. Si può notare quindi l’associazione: città-ricchezza e campagna-povertà.  
Un’altra novella in cui vediamo due ambientazioni differenti è quella di Nastagio degli Onesti, che inizia nella città di Ravenna, in ambiente nobiliare, e si conclude poi in una pineta vicino a Classe, in un luogo aperto.  Se la città è un luogo di cultura, dove vivono i nobili e dove si sviluppa il commercio, la campagna è il luogo dove vivono gli ignoranti e lavorano i poveri, nonostante sia qui che si ritirano i nobili nelle stagioni più calde, per trovare sollievo nelle loro residenze fuori città.  Se alcune novelle sono ambientate in città mercantili , come Napoli, Firenze o Pavia, altre sono ambientate in corti e palazzi, come la novella di Agilulfo il re barbiere : la storia si svolge alla corte di Pavia, nel palazzo pieno di servitori vivono il re e la regina, in un ambiente ancora feudale.
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VIRTU’ E  FORTUNA
La concezione di virtù di Boccaccio è molto moderna per i suoi tempi, quasi rinascimentale: la virtù è intesa come l’abilità che si mette in campo per contrastare il caso. Per Boccaccio questa abilità è data dall’intelligenza, l’ingegno che ci permette di dominare la realtà e dominare la Fortuna. Il concetto boccacciano di fortuna è indubbiamente laico, in quanto la Fortuna, che può essere dominata o dominare la nostra vita, non è intesa come volere divino, bensì come “caso” che condiziona, volenti o nolenti, le vicende umane e il flusso degli eventi. La Fortuna è quindi una forza autonoma, che sostituisce la divina Provvidenza. Ne consegue che per Boccaccio la virtù consista nel saper governare la Fortuna, cogliendo le occasioni propizie e reagendo in modo positivo ai colpi della sorte avversa mediante l’arguzia, la furbizia, l’uso intelligente e abile della parola.
Nella novella di Frate Cipolla, ad esempio, il frate riesce a dominare la Fortuna, grazie all’abile uso della parola. Così anche Ser Ciappelletto, nella prima novella della prima giornata, riesce a volgere la situazione a proprio favore grazie al suo ingegno e alla sua abilità nel parlare, e riesce a dominare la realtà, fornendoci  un chiaro esempio di virtù boccacciana: saper governare la Fortuna, senza preoccuparsi della correttezza morale del fine o del mezzo. Ser Ciappelletto riesce a dominare il destino ingannando persino il rappresentante di Dio, per poi essere adorato come modello di santità cristiana, e seppellito in una cattedrale.

IL DENARO 

Nelle novelle di Boccaccio, il denaro ha spesso un ruolo chiave, poichè è causa di inganni e sventure. Boccaccio critica sia gli avidi, come Landolfo Rufolo, sia i dissipatori, come Nastagio degli Onesti. Infatti, sebbene Boccaccio ritenga che il denaro sia importante nella vita, dal momento che ne rimase a lungo privo, non approva gli avidi e gli scialacquatori, promuovendo invece una gestione oculata del denaro. Boccaccio presenta i nobili come dissipatori, ed i mercanti come avidi accumulatori. Per il Boccaccio, la virtù borghese consiste nel saper amministrare i beni e il denaro, cosa che non sempre i nobili sanno fare. Boccaccio non biasima chi, con l’inganno, accumula denaro, come Frate Cipolla o Madama Fiordaliso, anzi sottolinea che non è sbagliato trarre profitto da ogni situazione, anche mettendo da parte i valori morali.

CORTESIA e RICCHEZZA
Per Boccaccio, la cortesia non è più una caratteristica propria dei nobili che si acquisisce per nascita, bensì una nobiltà dell’animo che si ottiene tra alle proprie qualità personali. La cortesia è la virtù che rende l’uomo generoso della sua ricchezza e magnanimo verso chi lo merita. Per Boccaccio la cortesia è uno dei valori sui quali rifondare la società fiorentina; tuttavia, egli parla di una cortesia borghese, conciliata con l’abilità di amministrare il denaro.
 Infatti, Boccaccio intravede nella cortesia medievale, come quella di Federico degli Alberighi, un pericolo per le ricchezze che vengono rapidamente dilapidate.
 Secondo Boccaccio è perciò necessario conciliare la mentalità borghese con quella feudale: la cortesia, la magnanimità e le nobili qualità devono essere unite alla virtù borghese di saper amministrare i beni e il denaro. Per la mentalità mercantile, la massima virtù consiste nell’accumulare denaro e non farsi travolgere dai colpi della sorte, nell’indipendenza e nella laboriosità. Per la mentalità feudale ,invece,  la virtù consiste nella magnanimità, nelle prodezze guerriere, nel disprezzo del lavoro, del denaro e del risparmio. Il Boccaccio suggerisce quindi di unire gli aspetti migliori delle due concezioni di virtù: magnanimità e buona amministrazione del denaro.

LA PAROLA
In Boccaccio la parola ha un’importanza fondamentale, è il mezzo con cui si può esprimere la propria intelligenza, lo strumento che permette di volgere sfortunate circostanze a proprio favore.  Con l’abilità oratoria, tanto celebrata da Boccaccio in tutto il Decamerone, si può governare il caso e dimostrare la propria arguzia, come nel caso di Guido Cavalcanti o del cuoco Chichibio. Nella novella, il cuoco riesce a trarsi d’impaccio con il suo padrone, grazie ad una risposta arguta, evitando quindi una severa punizione. Guido Cavalcanti invece, sentendosi accerchiato da Betto Brunelleschi ed i suoi amici, li lascia di stucco con una sottile battuta, pronunciata la quale esce di scena.
 La parola dimostra le effettive capacità dei personaggi, la loro intelligenza e il loro spirito, e, come nella novella di Cisti il Fornaio, è in grado di porre allo stesso livello due individui di diversa estrazione sociale.

RISPETTO E DISPREZZO
Secondo Boccaccio, sono degni di rispetto tutti coloro che, grazie alla loro intelligenza, riescono ad approfittare di ogni situazione e dominare la Fortuna. Indipendentemente dalla correttezza del loro fine ultimo, Boccaccio apprezza nei suoi personaggi la prontezza di spirito e l’ingegno. Persino un truffatore assassino e bugiardo come Ser Ciappelletto viene apprezzato dall’autore, in quanto riesce a risolvere ogni problema grazie al suo ingegno, sebbene in modo del tutto amorale.
Boccaccio disprezza invece gli ignoranti, i pecoroni, gli stolti, i superstiziosi e i creduloni, tutti coloro, insomma, che si lasciano ingannare o dominare dagli eventi, che restano inevitabilmente vittime di raggiri a causa della loro stupidità o ingenuità. L’autore disprezza inoltre il clero, i sacerdoti della curia romana, che sono il simbolo della corruzione e del degrado umano.

ALICE MASSI - Anno domini 1630


Anno domini 1630

Morti violente e repentine, bubboni lividi sui corpi degli ammalati: la città è preda di un morbo sconosciuto.
Chi sussurra di una malattia proveniente dall’Oriente, chi parla di peste, chi di febbri maligne o pestilenti, ormai una cosa è certa: l’epidemia è inarrestabile. I cadaveri giacciono insepolti per le strade, nessuno che osa spostarli per paura del contagio, persino gli animali sono vittime del morbo che appesta non solo Bologna, ma anche le campagne ai margini della città.
Ormai da settimane siamo chiusi in casa, timorosi di ciò che potrebbe accadere se uno solo di noi si ammalasse.
Nella città vige la più completa anarchia: chi ruba nelle case dei defunti, chi beve e  mangia sfrenatamente, ormai privo di inibizioni, spazzate via dalla peste come foglie al vento. Troppo tardi abbiamo infine voluto ammettere la natura di questa malattia, troppo a lungo i medici e le autorità hanno parlato di una semplice febbre o infezione , invece di riconoscere questo morbo per quello che è: peste. Abbiamo mentito a noi stessi, fingendo che l’epidemia fosse dovuta a malefici, polveri o unguenti maligni sparsi da servitori del demonio. Abbiamo dato inizio alla caccia agli “untori”, per trovare un capro espiatorio che fosse responsabile del flagello che ha colpito la città. E ora, è troppo tardi per arginare le conseguenze della nostra insensatezza, è troppo tardi per arrestare il contagio.
Nella città sono rimasti più morti che vivi, e persino i monatti, che prima accorrevano numerosi per trasportare i corpi nelle fosse, seppellirli e bruciare gli oggetti infetti, ora sono troppo pochi per ripulire le strade dai cadaveri, che restano sdraiati davanti agli usci, le piaghe ben visibili come monito per i vivi.
Come temevano i governanti bolognesi, gli altri paesi e le altre città hanno troncato ogni traffico di persone e merci, sebbene avessimo a lungo evitato di rendere pubblica la gravità del contagio.
La situazione è disperata, tanto che mi domando  se anche noi, non ancora malati, potremo vivere a lungo. I ricoveri per i malati, costruiti nell’ultimo mese, non sono più sufficienti a ospitare tutti gli appestati; i frati e gli ecclesiastici, che con solerzia hanno assistito i malati, stanno ora morendo uno dopo l’altro, poiché anche solo il contatto con gli abiti di un infermo può causare la diffusione del morbo.
Questo flagello ha colpito non solo la città, ma si è esteso nelle campagne, dove il bestiame muore e i campi sono abbandonati nelle impietose mani del tempo.
 Sono poche adesso le processioni di penitenti, che pregano Dio di far cessare l’epidemia di peste, da lui mandata come punizione per le nostre iniquità.
Non vi è più invece alcun credo, alcuna moralità, nelle nostre azioni: ognuno vive come se fosse l’ultimo giorno prima dell’Apocalisse, chi prega, chi gozzoviglia intrattenendosi con donne, chi mangia e beve senza freni. I morti sono abbandonati anche dai parenti, i figli lasciati morire soli dalle loro stesse madri. Pochi sono i sacerdoti, e molti i defunti, tanto che ormai non vi sono più funerali, e, se per caso ne viene celebrato uno, è per un gran numero di morti, gettati insieme in un’unica bara.
Ohimè! Insieme al morbo si è diffusa anche la pazzia! Non vi è più alcuna carità umana né solidarietà tra i non appestati, la città è ora vittima del degrado dei suoi cittadini. Da solo viene lasciato morire chiunque manifesti i sintomi della peste: fiacchezza, febbre, polmonite, occhi lustri e bubboni doloranti all’inguine e sotto le ascelle.
 Così sono ridotti i miei concittadini, così è ridotta Bologna: nulla rimane della bella città che per lunghi anni fu sede papale, nulla rimane del suo antico splendore. In questo quadro di morte, null’altro posso fare se non pregare Dio; anche oggi il mio lamento è amaro: potessi tornare com’ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me! Ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. Che Dio allontani la disgrazia dalla mia famiglia, che porga l’orecchio alla mia preghiera!

mercoledì 15 febbraio 2012

E. MONARI - Frasi memorabili da "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore" di L. Sepùlveda:


1) Il narratore descrive la maniera in cui il protagonista, Antonio Jose Bolivar, si avvicina  alla lettura, maniera che rimanda al metodo di insegnamento per i bambini che iniziano la scuola elementare: leggere lentamente, lettera per lettera, per poi ripetere l’intera parola ad alta voce. Ripetendo lentamente, i concetti vengono assorbiti meglio nella nostra mente e rimangono bene impressi.
"....Antonio Josè Bolivar sapeva leggere, ma non scrivere......Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito.                                       Poi faceva lo stesso con la frase completa, e cosi si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine......"


2) Antonio viveva con gli Shuar, popolo nomade che abitava la foresta, ma non era un di loro. Per questo motivo, anche se Antonio li rispettava e viveva con loro, capitavano le volte in cui si allontanava e in questa maniera la mancanza che sentivano gli Shuar aumentava sempre di più. Non era uno di loro, questo era un dato di fatto, ma si era integrato come se lo fosse.
......”Così ogni tanto doveva andarsene, perchè - gli spiegavano - non era un bene che non fosse uno di loro. Desideravano vederlo, averlo accanto, ma volevano anche sentire la sua mancanza, la tristezza di non potergli parlare, e il salto di gioia che il cuore faceva loro in petto quando lo vedevano ricomparire…"


3) Nella stagione delle piogge, ad Antonio veniva data una donna che, come  tutti gli Shuar, si prendeva cura di lui . La donna lo lavava, lo coccolava e, cosa più importante, gli dava amore. Antonio si sentiva bene e apprezzato, e solo quando si allontanò dagli Shuar, iniziò a leggere romanzi d’amore, forse perché non riusciva più a provare l’amore sulla sua stessa pelle, ma nella sua mente ritornavano solo i ricordi.

….”Durante la sua vita tra gli Shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l’amore; anche se non era uno di loro, era come uno di loro, e pertanto gli veniva offerta una donna nella stagione delle piogge. La donna lo conduceva alla riva di un fiume, lo lavava, adornava, intonando “Anents”, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare. Questo era amore puro, senza possesso e gelosia.”