lunedì 30 gennaio 2012

ALICE PIZZASEGOLA - Angelica nell'Orlando Furioso


Ariosto nell’ Orlando Furioso ha una visione e una concezione dell’uomo molto pessimista, in quanto egli non può opporsi alla fortuna se privo di virtù.
Filo conduttore di tutta l’opera è l’estenuante ricerca dell’oggetto del desiderio, la bella Angelica. La ricerca è laica e terrena e risulta vana perché l’oggetto è irraggiungibile. Angelica è la donna protagonista dell’Orlando Furioso e Innamorato, figlia di Galafrone, re di un favoloso regno Orientale del Cataio. Essa rappresenta bellezza e giovinezza che appare e trascorre dinanzi agli occhi dei cavalieri che la desiderano e mai la raggiungono. La bella Angelica è anche simbolo di intelligenza, poiché non è un’ ingenua fanciulla, ma usa le sue doti per farsi servire dai cavalieri innamorati. Attraverso la sua fuga dall’accampamento di Carlo Magno dimostra inoltre di essere una donna moderna, perché intraprendente e dalla forte personalità. Angelica è molto lontana dalla donna idealizzata dagli stilnovisti e dai poeti dell’ età cortese. È sensuale e tenera, appassionata e crudele, determinata a soddisfare il suo desiderio d’amore. Questa sua bellezza porta i cavalieri ad allontanarsi dai loro doveri morali di Paladini; anzi, la passione è un errore che porta Orlando alla follia e ad abbandonare le armi, quindi non lo innalza spiritualmente ma lo degrada.

VITTORIA TORRESANI - La follia ieri e oggi


Fin dall'antichità si inizia già a sviluppare il primo pensiero sulla pazzia. Gli antichi Greci, ad esempio, immaginarono che Ercole impazzito per amore avesse compiuto imprese incredibili. In genere, presso i Greci la follia era riconosciuta come un aspetto negativo dell'uomo, perché era considerata una carenza rispetto agli altri, quelli sani. Nel mondo romano e medievale, essere folli era invece considerato come avere qualcosa diverso dal normale. Poi, nel Cinquecento, l'atteggiamento verso i pazzi fu per lo più costituito dalla segregazione, l'allontanamento dagli altri.
Erasmo da Rotterdam, però, nel 1509 scrisse l'Elogio della follia, dove spiegava i vari tipi di pazzia ed affermava che nessuno ne è immune. Secondo Erasmo, vi sono due tipi di follia: una positiva e una negativa. Quella positiva è la capacità di sognare ed immaginare; quella negativa è l'avidità e la brama di possesso.
Ariosto, nella prima metà del Cinquecento, scrisse un poema intitolato Orlando furioso, che narrava anche di come Orlando non riuscì a controllare i propri sentimenti e quindi diventò pazzo per colpa di un amore non corrisposto. Questo comportamento fa sì che Orlando si allontani sempre più dalla civiltà e inizi a vivere sempre più in solitudine.
Nel corso del Seicento i pazzi cominciarono ad essere isolati in centri appositi (manicomi), e in quei luoghi in principio restavano rinchiusi senza alcuna cura, ma poi, pensando di riuscire a migliorare le condizioni dei pazienti, si iniziò ad utilizzare il dolore fisico. Ci fu un interesse per il caso clinico, una curiosità nello studio della malattia e di come provare a curarla. I primi tentativi furono fatti attraverso l'elettroshock, che rendeva più vulnerabili e mentalmente impressionabili, e con la camicia di forza.
Alla fine del Cinquecento, la pazzia venne studiata nel dettaglio ed alcuni autori scrissero altri libri riguardanti esempi di follia, come il Don Chisciotte, un uomo che, dopo aver letto molti libri sui cavalieri, impazzì e, pensando di essere anche lui un cavaliere, iniziò a viaggiare per la Spagna in cerca di avventure, come quando incontrò per la sua strada dei mulini a vento e, scambiandoli per dei giganti, iniziò a combatterli. Siccome però costui era un uomo goffo e ormai anziano, cadde a terra e se ne andò sconfitto.
Un altro esempio letterario del tema della follia è Dottor Jeckyll e Mister Hyde, romanzo che racconta della doppia personalità di uno scienziato pazzo, il quale effettua esperimenti su se stesso, creando una seconda personalità che rappresenta la sua parte folle, la quale agisce senza pensare e commette anche reati gravi, come omicidi.
Ai giorni nostri la pazzia è stata studiata più approfonditamente, non esistono più i manicomi, ma centri di riabilitazione, dove si viene ricoverati e curati o assistiti. La pazzia è infatti considerata come una malattia mentale con la quale si nasce o che può sopravvenire per varie cause. L'opinione pubblica è tuttavia ancora un po' incerta su come comportarsi con i folli, anche perché il rapporto tra pazzia e società è ancora molto discusso. Come trattare i pazzi viene infatti deciso dalle persone a seconda della società in cui si vive. Probabilmente, nel corso dei secoli a venire ci saranno altre novità riguardanti questo tema molto dibattuto.

ALICE PIZZASEGOLA - GLI UFO, FINZIONE O REALTA’?

La parola UFO è l’acronimo inglese per “Unidentified Flying Object Unknown”, e indica un oggetto volante non identificato. Secondo il Centro Italiano di Studi Ufologici, il termine UFO è anche sinonimo di qualsiasi oggetto volante che non sia possibile identificare con normali oggetti artificiali che si trovano nei nostri cieli, come ad esempio aerei o altri velivoli. 

Ci sono varie e disparate teorie sull’esistenza degli extraterrestri e sulle loro presunte manifestazioni, tanto è vero che l’ambito di ricerca che si occupa di studiare questo fenomeno - sia attraverso i documenti, sia formulando ipotesi scientifiche - si chiama ufologia. La prima fase della ricerca ufologica consiste nel catalogare le testimonianze di avvistamenti degli UFO, la seconda invece cerca di dare delle spiegazioni per individuarne la causa. Per poter documentare e verificare questi eventi vengono effettuate rilevazioni di tipo fotografico, chimico, medico e psicologico. 

La domanda che la maggior parte degli studiosi si pone riguarda le conseguenze che si potrebbero avere nel nostro pianeta se l’uomo venisse a contatto con presenze aliene. Se queste creature esistessero, sarebbero certamente molto evolute e non è detto che accetterebbero le nostre abitudini e le nostre usanze. Per quanto riguarda la loro esistenza, i governi hanno sempre cercato di tenere all’oscuro la popolazione su varie notizie sugli alieni, proprio perché il rischio sarebbe quello di provocare panico tra la popolazione, o anche una perdita di potere e di autorità dei governi nei confronti dei cittadini. Questa limitazione dell'informazione è stata attuata a partire dagli anni Cinquanta da parte delle autorità governative e militari di diversi stati. 

Spesso si è sentito parlare dell’area 51, che è situata negli Stati Uniti ed è una base militare. Più precisamente, questa base è localizzata nel deserto del Nevada, dove sembra che siano tenute nascoste le prove che gli alieni sono sbarcati sulla terra. Anche le sparizioni di navi e aeromobili nel Triangolo delle Bermuda sono ritenute da parte di molti sinonimo di presenza aliena, così come il fenomeno dei cerchi nel grano dove le coltivazioni di piante apparivano appiattite e prendevano forme geometriche che sono visibili solo dall’alto. A questo proposito, sono emerse una serie di ipotesi e di studi: ad esempio, c’è chi pensa che siano figure fatte dall’uomo per imbrogliare gli altri o c’è anche chi ritiene che siano esempi di fenomeni paranormali o legati agli alieni. 

Le prime forme dei cerchi nel grano erano semplici e circolari e potevano avere diverse dimensioni, ma con il passare degli anni hanno assunto forme sempre più complesse. Le prime formazioni di segni nel grano sembravano riferirsi alla geometria sacra, le successive invece erano basate sui principi delle scienze naturali e dei disegni matematici. Tra le tante ipotesi nate in seguito, si è presa anche in considerazione quella che i disegni abbiamo preso forma grazie all’atterraggio dei dischi volanti sui campi, appiattendo il grano in una forma ben definita. 

È molto importante constatare che anche la chiesa sta cambiando atteggiamento sulla possibile esistenza degli UFO. Secondo la chiesa, infatti, non è possibile attribuire alla grandezza di Dio la possibilità di avere creato altri mondi ed altri esseri viventi. Questa ipotesi può però essere considerata riduttiva e limitata, vista la vastità del nostro universo. Se pensiamo alle Sacre Scritture, abbiamo invece numerosi segni della possibile esistenza di intelligenze situate tra Dio e gli uomini.

mercoledì 18 gennaio 2012

ELEONORA FERRI - La concezione della follia nel tempo


Saggio Breve: La Follia


Evoluzione della concezione della pazzia nella storia

Il tema della follia compare con frequenza nella letteratura dell'età antica, ma anche umanistico-rinascimentale, perché ha sempre affascinato scrittori e filosofi di ogni tempo. Per i Greci, pazzo è colui che perde dignità, si priva della sua umanità e del suo onore; esempi letterari di furens sono Aiace e Ercole, ricordati per l'irrefrenabilità delle loro azioni, che li rende modelli negativi, in quanto non aumenta la loro conoscenza e il loro valore.
Nel mondo romano, la pazzia è interpretata in chiave neutra: non è né qualcosa in più né in meno rispetto al senno, è solamente qualcosa di diverso.
Con il Medioevo si riprende questa visione, pur con alcuni cambiamenti: la figura del pazzo è sì qualcosa di diverso, ma è anche sempre presente nella vita quotidiana, anche se relegato ai margini della comunità.
Nel Rinascimento si assiste alla compresenza di due princìpi che sembrano apparentemente opposti: da una parte si ha la convinzione che sia la pazzia sia una deviazione mentale, e in quanto tale destinata a essere repressa; dall'altra, la si ritiene un'esperienza rivelatrice delle apparenze del mondo, che viene analizzata con crescente curiosità scientifica, nel quadro dello sviluppo dell'interesse per il caso clinico.

Tutti sono folli

L'Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam (1511) non è peraltro una trattazione medica ma simbolica, di significato filosofico, che ci mostra la nascita della follia nei cuori degli uomini. E' la stessa follia personificata che parla in prima persona, invita a guardare il mondo con spirito critico e tollerante e svela l'ipocrisia di una razionalità soltanto apparente, dimostrando che tutti gli uomini e le istituzioni sociali sono folli: lo sono i teologi che ritengono di poter dominare la sfera del divino, i religiosi che vivono nella lussuria rapinando i credenti, gli insegnanti che straziano gli allievi a cui,invece, dovrebbero insegnare i veri valori, i giuristi perché difendono uomini anche quando sono colpevoli, ma anche matematici, filosofi, poeti, Cristo stesso, e il primo vero folle, il dio del denaro, Pluto.
Secondo la tesi di Erasmo, un pizzico di follia è assolutamente necessario alla vita, perché senza di essa non la si può comprendere nel suo senso più profondo. Il filosofo ci presenta quindi due tipi di follia: una negativa, dettata dall'invidia e dalla brama di potere, e una positiva, che consiste nell'agire senza motivo e senza secondi fini.

Amore come follia

L'amore può rispecchiare questi due aspetti e Ariosto ne parla nell'Orlando Furioso, stravolgendo l'immagine dell'eroe dell'Orlando Innamorato di Boiardo, di cui continua pure la narrazione: da eroe della fede, cavaliere razionale, Orlando diventa “furioso” per l'amore fra Angelica e Medoro. Causa scatenante della follia è quindi il sentimento non corrisposto della donna,che trasforma il paladino in un folle privo di senno, tant'è vero che per recuperarlo il cugino Astolfo dovrà raggiungere la Luna, perché “ciò che si perde qui, là si raguna”.
Immagine dell'”imbestiarsi” di Orlando è sicuramente il momento in cui egli si strappa i vestiti e l'armatura per girare nudo, privandosi della sua umanità. Questo personaggio diventa così emblema della perdita dell'identità umana: l'autore ci presenta la ragione come un bene fragile e la follia come risvolto di un sentimento quale l'amore che, se anche positivo, diventando eccessivo può annullare un individuo e la sua percezione dei limiti, allontanandolo dalla ragione.

La follia come un bene

Dalla letteratura seicentesca in avanti, grazie all'impatto narrativo di Don Chisciotte, la follia diventa un'alternativa valida rispetto alla normalità e alla monotonia: i folli sono raffigurati come più sensibili, fantasiosi, intelligenti, sognatori.
L'opera di Cervantes ci presenta il protagonista come un vecchio sulla soglia dei cinquant'anni che, influenzato dalla sua passione per i romanzi cavallereschi, decide di diventare cavaliere e ricalcare le gesta dei suoi predecessori. La sua follia è positiva e risiede sia nel fatto che egli vuole ricreare un mondo che non è mai esistito se non nell'immaginazione degli uomini del Medioevo, sia che vede la realtà con occhi diversi, come ci dimostra il celebre episodio dei mulini a vento, che don Chisciotte agli occhi del protagonista dei giganti.

La follia oggi

Ma oggi cos'è la follia? Spesso folle è considerato chiunque non segua l'opinione comune, le consuetudini sociali, o chi si distingue dalla massa.
Ma forse nessuno ha mai pensato che ciò non sia follia, ma solo un diverso punto di vista: spesso, per scarso interesse, non si indaga sul vero motivo di certi comportamenti e sulla loro causa scatenante, ma si preferisce scegliere la via più facile, definendo un individuo "pazzo" in senso negativo e dispregiativo.
Un pizzico di follia è invece indispensabile nella genialità, perché senza di essa molto probabilmente non si potrebbe raggiungere una sapienza più elevata e alternativa.
In ogni caso, come suggeriva Erasmo, la follia può avere una duplice faccia: è follia quella che rallegra, lega e unisce, ma anche quella che porta alle guerre e alla violenza.

lunedì 16 gennaio 2012

ADOME BLAISE KOUASSI - La peine de mort en Afrique subsaharienne

La situation de la peine de mort en Afrique subsaharienne.


Introduction

Si comme l’affirme le poète Persan, SAADI :
« Avoir pitié de la panthère, c'est être injuste envers les moutons.»,
nous disons aussi que « l’élimination de la panthère ne rendra pas les moutons à la prairie ».

L’exécution le 21 septembre 2011 par injection de Troy Davis (un Noir) en Georgie, sud-est des USA, après être resté plus de 20 ans dans le couloir de la mort pour le meurtre d’un policier (Blanc) vient nous rappeler encore une fois, si encore besoin en était, combien la peine de mort est un châtiment cruel, dégradant, inhumain, etc., une négation inacceptable du droit à la vie. Et pourtant jusqu’à son dernier souffle M. Davis a clamé son innocence d’autant plus qu’il y avait de sérieux doutes sur sa culpabilité.
La peine de mort, ce châtiment extrême a toujours déchaîné des débats passionnels suscitant parfois des réactions instinctives dont les partisans et adversaires se battent à coup d’argumentations rationnelles. Pour les uns en effet la peine de mort est une arme de dissuasion. Par la crainte qu'elle inspire, elle peut retenir un criminel. Pour les défenseurs de cette thèse la peine de mort permet á la société de se prémunir contre ses ennemis les plus dangereux en les expulsant définitivement de celle-ci, revenant dès lors á la loi du Talion, « œil pour œil, dent pour dent » et j’ajouterai, meurtre pour meurtre. Cette théorie pragmatique aurait pour finalité de faire baisser le taux de criminalité. Ce raisonnement traditionnel, d'ordre utilitaire [1]est le plus utilisé de nos jours pour justifier le maintien des articles qui prévoient la peine capitale dans des Codes pénaux de certains pays.
Pour les autres par contre, cette finalité de la peine de mort consistant en l’élimination physique n’a jamais permis de freiner l’ascendance de la criminalité. Elle n’aurait jamais été intimidante pour les criminels. Bien au contraire elle permettrait à ceux-ci d’être plus violents dans leurs forfaits et surtout de ne laisser aucune trace de vie, aucun témoin de leurs actes. L’Afrique ne vivant pas dans un « no man’s land », ne vivant donc pas en vase clos a été atteint par ce débat. Qu’en est-il de la peine de mort dans les pays d’Afrique subsaharienne ?
Y pratique-t-on le châtiment extrême ? L’Afrique est un continent qui regroupe avec l’indépendance le 9 juillet 2011 de la République du Sud Soudan 55 pays[2]. Tous les Etats sont-ils réfractaires á la peine de mort ? Combien sont-ils pour cette peine capitale ? Pour apporter quelques éléments de réponse à ces interrogations nous verrons dans un grand I les Etats abolitionnistes d’Afrique subsaharienne. Nous verrons ensuite dans un grand II les Etats qui pratiquent encore la peine de mort devenant ainsi réfractaires à la résolution de la Commission africaine des droits de l’homme et des peuples sur le moratoire de la peine capitale.



I. Les Etats abolitionnistes de la peine de mort d’Afrique subsaharienne
En 1948 la Déclaration universelle des droits de l’homme proclame le droit à la vie et le respect de la personne humaine; en 1950, est signée la Convention européenne de droits de l’homme dont le principe essentieest le respect dû à la personne humaine.[3] Ce principe est d’ailleurs entériné par la Charte africaine des Droits de l’Homme et des peuples de 1981. Il a fallu cependant plus d’un demi-siècle, pour que l’Union africaine lors de sa 44ème session ordinaire tenue du 10 au 24 novembre 2008 á Abuja, au Nigeria, crée une commission africaine des droits de l’homme. Celle-ci adoptera une résolution appelant les Etats africains á observer un moratoire sur les exécutions. Ce qui constituera un énorme pas vers l’abolition totale de la peine de mort au sein de l’Union africaine. Cette Commission réunie en sa 46ème session ordinaire tenue du 11 au 25 novembre 2009 á Banjul, en Gambie a rappelé  encore une fois sa mission de promouvoir les droits de l’homme et des peuples et de veiller à leur protection en Afrique en vertu de la Charte africaine des droits de l’homme et des peuples. Elle a aussi rappelé la résolution ACHPR/Res. 42 (XXVI), adoptée lors de la 26ème session ordinaire tenue à Kigali, Rwanda qui exhortait les Etats à envisager un moratoire sur la peine de mort.
En adoptant cette résolution, la commission africaine s’est alignée sur la tendance générale á l’abolition de la peine de mort. C’est pourquoi 16 Etats se sont inscrits aussitôt dans cette droite ligne de l’abolition de la peine de mort dans leurs textes juridiques. Ce sont :

1) Afrique du sud : Dernière exécution : 1991 ; Abolition : 1997, Ratification du protocole : 2002 
2)         Angola : abolie en 1992
3)         Bénin : abolie en août 2011
4)         Burundi : abolie 2009
5)        Cap Vert, dernière exécution en 1835 ; abolition en 1981 ; ratification en 2000
6)         Côte d’Ivoire, abolie en 2000
7)         Djibouti, abolie en 1995 ; ratification en 2002
8)         Gabon, abolie le 21 février 2011
9)         Guinée Bissau, abolie en 1993
10)       Maurice, abolie en 1995 ; dernière exécution 1987
11)       Mozambique, abolie en 1990 ; dernière exécution en 1986, ratification en 1993
12)       Namibie, abolie en 1990 ; ratification en 1994
13)       Rwanda, abolie en 2007, ratification en 2008
14)       Sao Tomé et Principe, abolie en 1990
15)       Sénégal, abolie en 2004, dernière exécution en 1967
16)       Seychelles, abolie en 1993 ; ratification en 1994
17)       Togo, abolie en 2009
Parmi ces pays les uns ont non seulement aboli la peine de mort dans leurs textes juridiques, en l’occurrence dans les codes pénaux et la constitution, mais ils ont aussi ratifié le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies. Ce sont :
1)         Afrique du sud : Abolition : 1997, Ratification du protocole : 2002,
2)         Cap Vert, abolition en 1981 ; ratification en 2000
3)         Djibouti, abolie en 1995 ; ratification en 2002
4)         Mozambique, abolie en 1990, ratification en 1993
5)         Namibie, abolie en 1990 ; ratification en 1994
6)         Rwanda, abolie en 2007, ratification en 2008
7)         Seychelles, abolie en 1993 ; ratification en 1994
Ils sont ainsi 7 pays qui ont aboli la peine de mort et ratifié le protocole des Nations Unies sur la question.
A côté de ces pays, nous avons ceux qui ont simplement aboli la peine de mort dans leur arsenal juridique sans pour autant avoir ratifié le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies.

II. Les Etats « voyous » ou encore les Etats d’Afrique subsaharienne appliquant la peine de mort.
Dans cette catégorie de pays nous observons aussi deux cas. Il y a un groupe de pays, qui, il est vrai, n’ont pas aboli la peine de mort dans leurs arsenaux  juridiques mais qui cependant ne l’appliquent pas depuis plus de dix ans, respectant ainsi le moratoire de la commission africaine. A côté de ceux-ci il y a évidemment les Etats qui ne veulent d’intervention étrangère dans leur loi interne l’appliquant dès lors dans toute sa rigueur. Voyons donc le premier cas cad,

A. Les Etats ayant plus de 10 ans de non application de la peine de mort
Ils sont au nombre de 21. Ce sont : Algérie, Burkina Faso, Cameroun, Centrafrique, Comores, Congo, Gambie, Ghana, Kenya,     Lesotho, Libéria, Madagascar, Malawi, Mali, Maroc, Mauritanie, Niger, Swaziland, Tanzanie, Tunisie, Zambie.

B. Les Etats appliquant véritablement la peine de mort
Enfin voyons le dernier cas, cad les Etats qu’on peut appeler voyous car restant sourds aussi bien au moratoire de la Commission de l’Union africaine qu’au 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques des nations Unies. Ce sont : Botswana, Egypte, Erythrée, Ethiopie, Guinée française, Guinée équatoriale, Libye, Nigeria, Ouganda, RDC, Sierra Leone, Somalie, Soudan du Nord, Soudan du Sud, Tchad, Zimbabwe. Ils sont donc au nombre de 16 Etats.

Conclusion
La peine de mort est un héritage de l’arsenal juridique colonial dont sont inspirés les codes pénaux des pays d’Afrique subsaharienne. Les anciens pays colonisateurs ont cependant modifié leurs textes de loi permettant de supprimer la peine de mort. Plus de 50 ans après la vague de la décolonisation certains pays maintiennent encore la peine de mort dans leurs arsenaux juridiques. Ainsi tant que ces textes n’ont pas été modifiés les juridictions de ces Etats continueront à prononcer la peine de mort là où elle est requise. Il faut cependant dire que la peine de mort est encore largement plébiscitée par certaines populations africaines surtout dans le contexte actuel d’insécurité, de narcotrafiquants et de terrorisme dans ces pays. De plus la subsistance de la peine de mort dans certains Etats africain est étroitement liée à loi islamique, la charia ou encore à la persistance des guerres internes, c’est pourquoi la question de son abolition s’avère relative ou même difficile.
En outre dans certains pays en Afrique le maintien de la peine de mort est une épée de Damoclès pour tous les défenseurs de droit de l’homme (souvenons-nous du Nigeria de l’ex-Président Sani Abacha qui fit l’exécuter Ken Saro Wiwa, un défenseur des droits de l’homme en région  Ogonis au Nigéria). 
Elle devient un moyen d’oppression contre tous les partis d’opposition, un outil efficace pour contrôler les populations quand on sait que les décisions sont régulièrement rendues contre les membres de l’opposition au Tchad, en RDC ou encore au Zimbabwe. C’est pourquoi l’Union Africaine a créée une Commission des Droits de l’homme qui a adopté une résolution appelant les Etats membres á observer un moratoire sur l’exécution de la peine capitale en vue de l’abolir, conformément à la Résolution 62/149 de l’Assemblée Générale des Nations Unies, adoptées en 2007 sur la peine de mort mais aussi en conformité avec les tendances actuelles du droit international qui encouragent l’abolition de la peine de mort, en particulier, le 2ème Protocole facultatif au pacte international relatif aux droits civils et politiques, les Statuts de la Cour Pénale internationale et la résolution 2005/59 de la commission des droits de l’homme des Nations Unies relative à la peine de mort. La mise au travail de la commission a permis de mettre en mouvement l’abolition de la peine capitale sur le continent. Ainsi comme nous l’avons vu, les 2/3 des pays du continent africain sont abolitionnistes en droit (17) et en fait (21) et 13 autres ont accordé un moratoire á son application (certains viennent des 21 et les autres sont des 16 restants), démontrant ainsi que sur ce terrain, l’Afrique pour une fois n’est pas une championne des exécutions capitales.

Le droit pénal traditionnel africain
Au vu de ce qui précède remarquons que la peine de mort a existé dans plusieurs pays africains et existent encore aujourd’hui dans certains autres. Cependant cette peine en tant que telle était inconnue dans le droit pénal traditionnel africain. Cela s’explique par le fait que les buts poursuivis ne sont pas les mêmes. En effet dans le droit moderne la fonction rétributive et utilitaire de la peine selon l’approche classique repose sur ce postulat fondamental selon lequel l'être humain est doué d'un libre arbitre. En conséquence, il choisit librement de commettre les actes interdits par la loi pénale. Les doctrines rétributives, issues de l'Ancien régime, assimilent la faute au péché. La peine, juste en elle-même, doit faire souffrir le condamné, la douleur étant posée comme condition d'expiation de la faute commise. Les théories utilitaires, issues de la période révolutionnaire, sont dominées par le souci de défense de la sociétéElles prônent que la peine a pour but d'empêcher le crime. On comprend alors que les doctrines rétributives s'attachent à atteindre le condamné lui-même par des châtiments corporels souvent définitifs. A l'inverse mais avec autant de vérité, la peine utilitaire doit conduire à détourner du crime par intimidation, le « crime devant se faire davantage craindre par la répression à laquelle il expose que désirer par la satisfaction qu'il procure». C’est donc une notion de prévention du crime qui domine ici.
Dans le droit traditionnel par contre la peine n’a pas ce but expiatoire car ce droit n’a pas pour objectif de trancher un conflit entre les parties et préciser qui a tort et qui a raison comme cela se voit dans le droit moderne. Sa tâche principale consiste á apporter la paix sociale dans la communauté, à réunifier la société troublée par un de ses éléments. La cohésion de l’ensemble du groupe se trouve établie de même que l’harmonie entre les membres de ce groupe social. C’est pourquoi la recherche de cette cohésion repose d’abord sur les épaules des plus anciens mais aussi sur tous les membres de la communauté. Cette conviction repose sur des conceptions mystiques.
L'obéissance à la loi traditionnelle est un acte de respect envers les ancêtres, dont les pieds restent dans le sol et l’esprit surveille les vivants: C’est pourquoi chacun sait exactement ce qui devrait arriver et ce qui est interdit. L’on suit volontairement les coutumes traditionnelles et ne se demande pas si cela est légal ou nonLa conséquence d'une désobéissance à ce droit conduirait à une violente réaction des esprits des ancêtres.
La commission d’une infraction ou d’une déviance s’expliquera par des phénomènes surnaturels, extérieurs ou intérieurs qui auraient poussé l’infracteur á commettre l’infraction. Dès lors celui qui commet cette infraction n’est pas un auteur mais plutôt une victime d’un déterminisme auquel il n’a pas pu échapper. Dès lors la sanction ne peut être une mesure expiatoire ou de vengeance comme dans le droit moderne mais plutôt comme des mesures permettant à l'auteur-victime de pouvoir réintégrer la société et permettre à la communauté d’être unie. Ces mesures pourraient consister à des séances d’exorcisme pour libérer l’individu des esprits mauvais qui l’habiteraient et l’auraient conduit sur le mauvais chemin de l’infraction ou de la déviance ou encore en des châtiments corporels destinés á extraire le mauvais esprit du corps de l’individu mis en condition de transe en le battant.





[1] Jean TOULAT, La peine de mort en question, p. 43, éditions pygmalion, Paris 1977.
[2] Tous ces pays sont membre de l’Union africaine sauf le Maroc qui avec l’entrée de la RASD a décidé ne plus faire partie de l’Union.
[3] Thibault, Laurence: La peine de mort en France et à l’étranger, éditions Gallimard, Paris 1977.

mercoledì 11 gennaio 2012

ALICE MASSI - Perduti nel castello di Atlante


Analisi del canto XII dell’ Orlando Furioso  di L. Ariosto



Nel canto XII del poema di Ludovico Ariosto, intitolato Orlando Furioso, l’autore paragona la disperata ricerca di Orlando, che non trova l’amata Angelica, a quella della dea Cerere, che secondo il mito perse la figlia e, per ritrovarla, scese persino negli Inferi. 

Orlando, il miglior cavaliere cristiano, cerca la sua amata in Francia, e si appresta a giungere fino in Italia e Spagna, quando ne sente la voce disperata che lo chiama. Orlando vede quindi Angelica che viene rapita da un cavaliere, il quale entra in un castello con la fanciulla, senza fermarsi nonostante i richiami di Orlando. Lo stesso paladino segue i due all’interno del palazzo decorato di oro e marmi, e, smontato da cavallo, cerca l’amata in ogni dove, ma Angelica è svanita, e con lei il cavaliere. Orlando si affanna nella sua ricerca, e passa da una stanza all’altra senza sosta. 

Nel palazzo non vi sono muri, ma solo cortine che delimitano le stanze. Correndo da una stanza all’altra, Orlando incontra numerosi altri cavalieri, che cercano anch'essi qualcosa che non riescono a trovare. Infatti, essi sono stati attirati nel palazzo grazie a un’illusione: ognuno di loro ha visto entrare nel castello l’oggetto del desiderio, così come Orlando stesso era stato vittima di questo incantesimo. 

Il protagonista, ormai rassegnato all’idea di non poter trovare Angelica, esce nel giardino del palazzo, e da qui vede a una finestra l’amata che chiede aiuto. Così, con rinnovata energia, Orlando si lancia all’interno del castello per cercarla, non sapendo di essere nuovamente caduto in un tranello. Infatti, ogni cavaliere è vittima della stessa illusione, e sente e vede sfuggire la propria amata o la cosa che più brama e desidera. 

Le due ottave più importanti di questo canto sono la XI e la XX. La parafrasi letterale dell’ottava XI è la seguente: “e mentre camminava invano di qua e di là, pieno di agitazione e pensieri, Orlando ritrovò nel castello Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, re Sacripante e altri cavalieri, che andavano su e giù e come lui, percorrevano varie strade, e si rammaricavamo dell’azione del malvagio signore di quel palazzo”. Nell’ottava XX è invece svelato il segreto dell’illusione: “una stessa voce o persona che ad Orlando sembrava Angelica, a Ruggiero sembrava la donna di Dordona, Bradamante, che lo allontanava da sé. Se Ruggiero avesse parlato con il re Gradasso o con uno di coloro che erravano nel palazzo, si sarebbe accorto che a tutti loro sembrava che quella cosa (l’illusione) fosse ciò che ciascuno più bramava o desiderava per sé “. In questa ottava Ariosto spiega qual è l’incanto operato dal mago Atlante, che per attirare i cavalieri nel castello mostra loro ciò che più desiderano, ma non possono raggiungere. Nell’opera di Ariosto è frequente l’immagine del labirinto, del castello incantato, dove l’uomo rincorre i propri desideri, ma non ottiene l’oggetto del desiderio a causa dell’intervento del caso. E’ la fortuna che fa da padrona e allontana gli uomini dal loro obiettivo, disperdendoli e conducendoli in selve intricate, labirinti e palazzi incantati, e Ariosto vuole suggerire questa immagine come metafora della vita umana. Infatti, così come i cavalieri nell’inseguire i propri sogni si perdono, gli uomini nella vita tentano di raggiungere un obiettivo ma vengono ostacolati dal destino. 

Alcune parole chiave evidenziano tali temi centrali del testo: “cercare", "parere" (nel significato di sembrare), “inganno", "incanti", "disio", "van/invano”. Questi termini sottolineano la vanità della ricerca di un oggetto del desiderio, che è frutto di un’illusione.Per mettere in evidenza l’affanno dei cavalieri nella loro disperata ricerca, ricorrono nel canto anche espressioni come: “or quindi or quinci", "di su di giù", "alto e basso", "correndo”. Sono numerose inoltre le figure retoriche che evidenziano queste espressioni. Ad esempio, nella terza ottava vi è il polisindeto: “ o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare [..] “; nella seconda ottava vediamo un’anafora, in quanto viene ripetuta la congiunzione “e” all’inizio di tre versi consecutivi, per sottolineare l’affannarsi di Cerere nella sua ricerca, e ritroviamo questa stessa figura retorica nella quarta ottava, in cui è ripetuto il termine “per”. Le rime divengono poi più aspre e dure nella nona ottava, in cui è narrata la frettolosa e ansiosa ricerca di Angelica da parte di Orlando. All’inizio del canto, inoltre, per mettere in luce la forza del sentimento del paladino per l’amata e la sua determinazione nel trovarla, Ariosto paragona Orlando alla dea Cerere. 

A proposito di questo canto, Italo Calvino disse: “ il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo di Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso di un labirinto”. Con questa frase, egli ha probabilmente riassunto l’essenza e il messaggio del canto: infatti, Ariosto vuole suggerire che l’uomo sia destinato a volere ciò che non può avere, e concretizza questa impossibilità con l’immagine del castello di Atlante, un vero e proprio labirinto che, per quanto chiuso e delimitato, contiene le illimitate brame dell’uomo. Ariosto sostiene che l’uomo s’impegna quindi per obiettivi vani, inseguendo ideali e sogni che non può realizzare. Particolarmente significativa in proposito è l’undicesima ottava, dove la futilità della ricerca umana è sottolineata dal termine “ vano”. Questa parola è frequente anche nella decima e nella dodicesima ottava, sempre a evidenziare l’inutilità della ricerca dell’uomo, destinato a essere allontanato dall’oggetto del desiderio dalla Fortuna. 

Nell’affermare questa idea, l’autore interviene personalmente, in prima persona, nel testo, per mostrare la natura illusoria di ciò che vede Orlando e svelare l’inganno di Atlante: infatti, con l’espressione: “ non dico [..]”, nella sesta ottava, è chiarito al lettore che la visione di Orlando è frutto di un incantesimo. La voce del narratore compare anche nella ventesima ottava del canto, sempre per spiegare la malia del palazzo, che si prende gioco dei desideri umani. Questo luogo incantato, magico, viene descritto da Ariosto con una serie di dettagli realistici: l’oro, i marmi, le finestre, i letti, e così via. Risulta dunque evidente in questo testo il "naturale meraviglioso" di Ariosto, ovvero come la fantasia nasca dal reale. 

D'altro canto, si può affermare che il palazzo di Atlante, descritto in questo canto, sia una metafora della struttura del poema, in quanto l’Orlando Furioso di Ariosto è un poema aperto: non ha un inizio poiché è una “gionta” al poema del Boiardo, l’Orlando Innamorato, e non ha una vera e propria conclusione. E’ possibile dunque l’aggiunta di un episodio o un personaggio in un qualsiasi punto dell’opera, così come nel palazzo di Atlante non vi è una delimitazione delle stanze, che sono separate solo da veli e cortine, e non vi è nemmeno un limite a ciò che vi si può cercare perché ognuno vi vede ciò che più desidera e ricerca. 

Questa struttura "aperta", inoltre, non riguarda solo la tecnica narrativa, ma anche le peculiarità della struttura metrica. Se infatti è vero che il poema è in ottave, strofe di otto versi endecasillabi i cui primi sei sono a rima alternata (AB AB AB) e l’ultimo distico a rima baciata (CC), tipica di Ariosto è la tecnica - che ritroviamo anche in questo canto - di non terminare il discorso alla fine di una strofa, ma di iniziare a introdurre l’argomento dell’ottava successiva, così da rafforzare l’unità del testo. Possiamo osservare un esempio di questo procedimento nella quarta strofa, che prelude agli avvenimenti della seguente. Le ottave, inoltre, non hanno sempre autonomia sintattica, cosa che possiamo notare sin dalla prima strofa del canto XII. 

In conclusione, con questo canto, Ariosto propone al lettore una riflessione sul fine che l’uomo ha nel mondo, sulla natura effimera dei suoi sogni e sulle sue aspirazioni, che hanno valore finché rimangono tali e non possono essere coronate, ma anche sulla natura cangiante e imperscrutabile della realtà.

martedì 10 gennaio 2012

SOFIA DI SARNO - Vigilia nel bosco



Era la vigilia di Natale del 1982 quando Jorge e Vicente, due anziani amici, decisero di andare nel bosco che si trovava subito fuori da Valencia per prendere un albero che in seguito avrebbero addobbato per le festività a venire. Entrambi erano soliti addentrarsi sempre nello stesso sentiero, ma purtroppo gli abeti presenti lungo quest’ultimo erano troppo grandi da tagliare e trasportare fino al furgoncino con cui erano arrivati, e così decisero di prendere una strada diversa. 

Percorrendo il cammino, notarono con allegria che qualche scoiattolo saltellava da un ramo all’altro degli alberi e che nonostante il freddo ci fosse ancora qualche uccello che cinguettava. Nello stesso instante i due si sentirono in perfetta armonia con la natura che li circondava; era qualcosa di poco comune per loro che erano abituati e vivere nella frenesia della città che non riposa mai. 

Arrivati ad un certo punto trovarono il pino ideale, né troppo alto né troppo robusto, della giusta misura da tenere nel salotto di fianco al camino. Così i due amici segarono il tronco e caricarono l’albero su di un carretto che si erano portato dietro durante tutto il tragitto. 

Ripercorrendo il tragitto per tornare indietro dove avevano lasciato il loro camioncino, iniziarono a parlare del più e del meno e a pianificare come e dove avrebbero trascorso le feste natalizie, così senza accorgersene quasi si avvicinarono pericolosamente a un burrone. In un batter d’occhio Vicente si ritrovò appeso a un ramo che sporgeva dalla parete rocciosa del dirupo e dopo qualche passo Jorge si voltò indietro e non vedendo il suo compagno si affacciò al precipizio e fu allora che vide Vicente in grave pericolo. Abbandonò il carretto e si piegò per cercare di afferrare la mano del suo amico. La fronte era perlata di sudore dallo sforzo e dalla paura e Vicente non smetteva di chiedere aiuto ma grazie ai suoi robusti muscoli riuscì a sollevarlo. I due si abbracciarono forte e a lungo, circondati dalla pace assoluta che era stata solo interrotta dalle urla dello sfortunato Vicente, il quale giurò a Jorge che da quel momento in poi avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui e che gli doveva la vita. 

ELISA MONARI - Perché i bambini hanno paura dei boschi?


(Articolo di giornale)

BAMBINI, BOSCHI E FAVOLE


A tutti i bambini piace farsi raccontare delle favole, e ogni genitore molto spesso si sente fare la domanda:
-“Mamma, mamma, mi racconti una favola, una di quelle in cui ci sono bestie feroci che abitano nel bosco?”.
Infatti, nella fantasia dei bambini, i boschi sono luoghi spaventosi, oscuri, abitati da animali malvagi e affamati ma anche da gnomi, fate e insetti.
Questa percezione nasce probabilmente dalle fiabe, in cui il bosco assume connotazioni pericolose, per via dei sentieri impervi e della fitta vegetazione che ci fanno smarrire la strada di casa. La luce del sole o della luna filtrata dalle fronde talvolta creano ombre strane, mentre momenti di assoluto silenzio possono improvvisamente venire interrotti dallo scricchiolio di un ramo o dal sinistro canto della civetta, che ci procurano brividi lungo la schiena.
A chi non è stata mai raccontata la fiaba di “Cappuccetto Rosso”?
In questa fiaba, conosciuta in tutta Europa, il bosco appare come un luogo di situazioni o incontri spiacevoli - come quello di Cappuccetto Rosso con il lupo cattivo -, e quindi in cui bisogna fare molta attenzione.
Infatti, Cappuccetto Rosso, e pur sapendo di non dover passare dal bosco per raggiungere la destinazione, spinta dalla curiosità, sceglie proprio un sentiero che lo attraversa, e qui incontra il lupo cattivo. Il bosco è dunque presentato in maniera negativa, come un luogo in cui ai bambini non è permesso andare e in cui avvengono incontri con animali parlanti cattivi o streghe, che ti inducono a compiere la scelta sbagliata.
E chi non conosce la fiaba della “Bella addormentata nel bosco”?
La principessa Aurora viene aiutata dalle tre “Fate Madrine”, le quali, per non farla trovare dalla strega cattiva, l’accudiscono per sedici anni in una casetta sperduta nel bosco. E nel bosco Aurora cresce in compagnia di piccoli e teneri animali (scoiattoli, lepri e cerbiatti), tenuta all’oscuro della verità, lontano dalla realtà; nel bosco, inoltre, il principe Filippo combatte contro il drago per salvarla.
Tuttavia, i boschi della fantasia, come mostrano le fiabe, sono ben diversi da quelli della realtà. Questi sono invece luoghi in cui regna la tranquillità, la pace, e dove puoi recarti per pensare, per schiarirti le idee, o per fare passeggiate e pic-nic con l’intera famiglia.
In Italia sono presenti molti parchi e riserve naturali, fra cui quello del Gran Paradiso: il primo parco nazionale istituito in Italia, che si estende per 70.000 ettari e abbraccia un vasto territorio di alte montagne, fra gli 800 metri dei fondovalle e i 4.061 metri della vetta del Gran Paradiso. Qui si possono osservare marmotte, camosci, stambecchi, l'aquila, e il raro gipeto, reintrodotto recentemente; inoltre, è stata segnalata anche la presenza del lupo, della lince e, alle quote più basse, del cervo.
I boschi nella realtà sono dunque diversi da come vengono presentati nelle fiabe, e grazie alla presenza di queste aree protette anche i più piccoli possono apprezzare questi luoghi, di cui conoscerebbero altrimenti le caratteristiche appunto solo dalle fiabe. Invece, non bisogna accontentarsi di conoscere solo un aspetto delle cose e, soprattutto ai bambini, è importante dare i giusti mezzi perché possano ampliare le loro conoscenze, vedendo così, ad esempio, i vari aspetti della natura che li circonda.


sabato 7 gennaio 2012

Martine Giuliani - “L'inaspettato”

Nella piccola cittadina di Woodshade abitava un gruppo di amici con dei grandi sogni.
A Woodshade tutti si conoscevano come in tutti i piccoli centri un po' isolati, ma collegati al mondo esterno con una ferrovia, e solo da quella. Questa era la caratteristica di questo luogo molto grazioso e accogliente: era raggiungibile solamente tramite treno, perché gli abitanti in una delle riunioni avevano deciso di rendere il luogo speciale per qualcosa. Questo poteva sembrare controproducente, ma in realtà attirava molti turisti.
Il gruppetto di amici era formato solo da ragazzi: Charlie, Mark, Sal, Jack e Oliver. Avevano tutti una passione in comune: andare in giro per boschi ad esplorare e ad arrampicarsi sulle pareti nei dintorni.
Un giorno di inverno decisero di andare ad arrampicarsi, sebbene sapessero benissimo che era pericoloso. Camminarono nel bosco per due ore abbondanti e finalmente si ritrovarono davanti al Deepwall, dove molti esperti dell'arrampicata venivano a sfidare se stessi. I ragazzi, avendo sempre abitato lì, conoscevano bene ogni  roccia di quel muro, però da bravi scalatori studiarono ogni zona e si prepararono. Iniziarono l'arrampicata. A metà del percorso sentirono delle urla e dei suoni che non sapevano definire: potevano essere di un animale, ma non avevano idea di cosa potesse essere. All'improvviso videro un uomo, un cacciatore di passaggio o un turista che era inseguito da una specie di orso, ma non si capiva bene: era molto più grosso del solito e il suono che emetteva era troppo acuto.
I ragazzi sapevano che erano al sicuro, però si spaventarono per la scena appena vista e  appena non sentirono più le urla decisero di scendere con cautela e correre a casa.
Per fortuna, nel tragitto verso casa non incontrarono niente diverso dal solito. Arrivarono giusto in tempo per la cena, al calare del sole. Tuttavia, tutti cinque la notte dormirono male, soprattutto Mark che voleva sapere esattamente cosa fosse successo quel giorno nel bosco, chi fosse l'uomo e cosa fosse l'animale.
I giorni seguenti Mark cercò di convincere gli amici a ritornare lì e avventurarsi, però gli altri si erano spaventati troppo e si rifiutavano.
Successero cose strane: una mattina al supermarket fu sfondata la vetrina e fu distrutto tutto; si cercò di capire cosa fosse stato rubato, e risultò tutto il bancone della carne e delle patatine. Si pensò ad un atto di vandalismo, ma chi poteva mai essere in quella piccola città?
Poi iniziarono a scomparire persone, sempre più spesso.
Si giunse al punto di voler evacuare la città, però Mark,  deciso, voleva rimanere per indagare e supplicò i suoi amici, che rimasero tutti tranne Sal.
I ragazzi, prima che la polizia li potesse bloccare per farli evacuare, sgattaiolarono nel bosco e andarono nel punto dell'accaduto. Avevano con loro cartine, bussola e acqua, niente cibo per paura di attirare la bestia. Percorsero la parete pensando di poter trovare una grotta dove l'orso gigantesco potesse essere nascosto. Camminarono un bel po', fino ad arrivare ad una cascata. Lì si fermarono e si sedettero per riposarsi. All'improvviso dalla cascata si sentirono degli urli fortissimi e acuti e da dietro uscì l'orso gigantesco. I ragazzi presero le loro cose e scapparono a nascondersi perché l'animale non li vedesse, sebbene avesse un gran olfatto. Fortunatamente non li vide e andò via.
I ragazzi, scopertone il nascondiglio, iniziarono ad avvicinarsi e ad entrare, molto spaventati. Era pieno di cunicoli e non sapevano dove andare, fino a che arrivarono in una sala centrale e videro tante persone sedute in cerchio. Alle pareti erano appese delle cose pelose marroni: travestimenti da orso!
I ragazzi non capirono fino a quando non videro una scena raccapricciante: un uomo su uno spiedo che veniva cotto sul falò! I ragazzi erano terrorizzati e volevano solo tornarsene a casa e chiamare la polizia. Avevano trovato una setta di cannibali che si travestiva da orso per non dare eccessivamente nell'occhio. Che cosa disgustosa!
Con molta cautela uscirono dalla caverna e tornarono a Woodshade. Per fortuna c'era ancora la polizia, che però non voleva credere alla storia assurda raccontata dai ragazzi. Ma loro videro Sal ancora a casa sua: suo padre era il vice sceriffo, gli raccontarono tutto ed egli, anche se non molto convinto, per il bene della città e sapendo di avere davanti a se ragazzi onesti, decise di intervenire.
Le forze dell’ordine fecero un’imboscata ai cannibali. La storia finì sui giornali di tutto il mondo, e da quel giorno di ogni persona che scendeva dal treno fu obbligatorio registrare le generalità e il domicilio.