martedì 21 febbraio 2012

MASSIMILIANO PETRASEK - Recensione: Il vecchio che leggeva romanzi d'amore di Luis Sepùlveda



Il romanzo “il vecchio che leggeva i romanzi d’amore” è un romanzo d‘avventura ambientato nella foresta amazzonica. 
Ho trovato il libro abbastanza interessante e di facile lettura . Ciò che mi ha colpito principalmente è stato il confronto tra la società degli indigeni, gli Shuar, e la civiltà moderna rappresentata dai gringos, un gruppo di bracconieri e uomini senza scrupoli nei confronti della natura. 
Il protagonista del romanzo è un vecchio di nome Josè Antonio Bolivar, un occidentale che però prova per la terra in cui vive un grande senso di amore e rispetto, come solo gli Shuar possono avere. La figura di Antonio contrasta con quella del grasso sindaco che Sepùlveda non chiama mai per nome, ma solo col nomignolo di Lumaca, che ben descrive i sentimenti ch'egli provoca. 
In effetti, i protagonisti del romanzo sono fissi: non cambiano quindi pressoché mai il loro carattere e il oro modo di agire, sicché anche il giudizio dello scrittore nei loro riguardi risulta costante, ora nella “simpatia”, ora nell'“antipatia”. 
Il vecchio protagonista è dunque, come si accennava, un occidentale, che però ha nutrito il desiderio di vivere come un indigeno. Ben presto tuttavia questo sogno si spezza, in quanto Antonio si accorge che la sua mentalità e i suoi rapporti con la natura sono ben diversi da quelli dei nativi dell'Amazzonia. 
Un'episodio che ben rappresenta questa sua non reale appartenenza agli Shuar avviene quando per caso uccide una bestia feroce con un fucile: un gesto apparentemente di poco valore, ma per gli Shuar molto grave, perché per loro sarebbe accettabile solo se compiuto con le proprie mani o con un pugnale. Sepùlveda, per descrivere il distacco tra Antonio e gli indigeni, usa poche parole, ma di grande espressività: “Era come loro ma non era uno di loro“. 
Un‘altra parte del libro che mi ha colpito è stata la fine, quando il vecchio spara al tigrillo che costituiva una minaccia per i suoi compaesani e lo uccide: infatti, Antonio dopo aver ucciso l‘animale non si sente affatto vincitore; anzi si sente sconfitto e prova un grande senso di amarezza, sia perché ancora una volta ha usato l’arma che è stata la principale causa del suo allontanamento dagli Shuar, sia perché a voler uccidere l’animale non è stato lui, ma il sindaco e i Gringos. 
Sepulveda nei confronti del vecchio protagonista prova in conclusione un grande senso di ammirazione e rispetto, come testimoniano anche le ultime parole del romanzo: «Il vecchio la accarezzò ignorando il dolore del piede ferito e pianse di vergogna, sentendosi indegno, umiliato, in nessun caso vincitore di quella battaglia».

SOFIA DI SARNO - La natura e gli estranei: antologia da Sepùlveda



Nel romanzo di Luis Sepùlveda Il vecchio che leggeva romanzi d'amore ho apprezzato particolarmente i brani che mettono in risalto i cattivi comportamenti che possono avere gli uomini bianchi quando si trovano fuori dalla loro patria, come per esempio la prepotenza. Secondo l'autore, i loro atteggiamenti offendono la natura, portando anche alla morte di alcuni animali che, se non vengono infastiditi, non attaccano di certo gli uomini.


Gli estranei 




Antonio José Bolivar, dopo cena, inizia a ricordare come era iniziata la sua vita a El Idilio e in particolare un episodio che lo porterà a disprezzare ancora di più la figura del Sindaco della località, oltre che i gringos americani, che non sembrano non saper rispettare nulla. 



Di malumore si mise la dentiera e masticò i pezzi rinsecchiti di fegato. Aveva sentito dire spesso che con gli anni arriva la saggezza, e aveva aspettato, fiducioso, che questa saggezza gli desse quello che più desiderava: la capacità di guidare la direzione dei ricordi per non cadere nelle trappole che questi spesso gli tendevano. 
Ma ancora una volta cadde nella trappola e smise di sentire il rumore monotono dell’acquazzone. 
Erano passati vari anni dalla mattina in cui, al molo di El Idilio, era arrivata un’imbarcazione mai vista prima. Una lancia piatta, a motore, che permetteva di viaggiare comodamente a circa otto persone, sedute a due a due invece che nella scomodissima fila indiana dei viaggi in canoa. 
Con la nuova imbarcazione arrivarono quattro nordamericano provvisti di macchine fotografiche, viveri e arnesi di uso sconosciuto. Rimasero ad adulare e intossicare di whisky il sindaco per vari giorni, finché il ciccione, tronfio di orgoglio, si avvicinò con loro alla sua capanna, indicandolo come il più grande conoscitore dell’Amazzonia. 
Il grassone puzzano di alcool e non smetteva di chiamarlo suo amico e collaboratore, mentre i gringos fotografavano non solo loro due, ma tutto quello che capitava davanti alle macchine fotografiche. 
Senza chiedere il permesso entrarono nella capanna, e uno di loro, dopo aver riso a crepapelle, insistette per comprare il ritratto che lo mostrava accanto a Dolores Encarnacion del Santisimo Sacramiento Estupiñan Otavalo. Il gringo osò staccare il quadro dalla parete e metterselo nello zaino, lasciandogli in cambio un pugno di banconote sul tavolo. 
Fece fatica a frenare la rabbia e a tirare fuori le parole. 
“Dica a quel figlio di puttana che, se non rimette subito al suo posto il ritratto, gli faccio volare via le palle con due colpi di doppietta. E sappia che la tengo sempre carica.” 
Gli intrusi capivano lo spagnolo, e non ebbero bisogno che il ciccione spiegasse nel dettaglio le intenzioni del vecchio. Il sindaco, in tono amichevole, chiese loro comprensione, adducendo che i ricordi erano sacri in quelle terre, e aggiunse che non dovevano aversene a male, perché gli ecuadoriani, e lui in particolare, apprezzavano molto i nordamericani, quindi, se si trattava di portarsi via qualche bel ricordo, si sarebbe incaricato lui stesso di trovargliene. 
Non appena il ritratto fu tornato al suo posto, il vecchio alzò i cani della doppietta e ordinò loro di andarsene. 



L’amore degli shuar 




Esiste una piccola tribù che popola l’Amazzonia, chiamata Shuar. All’interno della loro comunità l’amore è visto in una forma molto diversa da quella che noi occidentali conosciamo e Antonio José Bolivar ha potuto constatarlo in prima persona 


Durante la sua vita tra gli shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l’amore.
Non era uno di loro, e pertanto non poteva avere mogli. Ma era come uno di loro, e quindi lo shuar anfitrione, durante la stagione delle piogge, lo pregava di accettare una delle sue spose per maggiore orgoglio della sua casta e della sua casa. 
La donna offertagli lo conduceva fino alla riva del fiume. Lì, intonando anents, lo lavava, lo adornava e lo profumava, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare su una stuoia, coi piedi in alto, riscaldati dolcemente da un fuoco, senza mai smettere di intonare anents, poemi nasali che descrivevano la bellezza dei loro corpi e la gioia del piacere, aumentato infinitamente dalla magia della descrizione. 
Era amore puro, senza altro fine che l’amore stesso. Senza possesso e senza gelosia. 
“Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono.” 
Così gli spiegò una volta il suo compagno Nushiño. 


La perversità umana 




Da tempo una femmina di tigrillo minaccia la popolazione de El Idilio e così Antonio José Bolivar, il sindaco e altri uomini decidono di andare a scovarla nella sua tana per ucciderla e porre fine alle paure dei cittadini. Dopo un faticoso viaggio, però, il protagonista si ritrova da solo faccia a faccia con l’animale. 


In alto, sul bordo del declivio, la femmina muoveva la coda freneticamente. Le piccole orecchie vibravano captando tutto i rumori della foresta, ma non attaccava. 
Sorpreso, il vecchio si mosse lentamente fino a recuperare la doppietta. 
“Perché non attacchi? A che gioco stai giocando?” 
Sollevò i cani della doppietta e si accostò l’arma al volto. A quella distanza non poteva fallire. 
In alto la femmina non gli staccava gli occhi di dosso. All’improvviso ruggì, triste e stanca, e si lasciò cadere sulle zampe. 
La debole risposta del maschio gli arrivò da molto vicino, e non fece fatica a trovarlo. 
Era più piccolo della femmina, e stava sdraiato al riparo di un tronco vuoto. Era ridotto pelle e ossa e aveva una coscia quasi strappata dal corpo da un colpo di fucile. L’animale respirava a stendo, e l’agonia sembrava dolorosissima. 
“Volevi questo? Che gli dessi il colpo di grazia?” gridò il vecchio verso l’altura, e la femmina si nascose tra le piante. 
Si avvicinò al maschio ferito e gli accarezzò la testa. L’animale alzò appena una palpebra. Esaminando con attenzione la ferita vide che cominciavano a mangiarselo le formiche. 
Appoggiò le due canne del fucile al petto dell’animale. 
“Mi dispiace, compagno. Quel gran figlio di puttana di un gringo ci ha fottuto la vita a tutti”, e sparò. 



LUCREZIA SERRA - La pazzia: perdita della natura umana o risorsa di una sapienza alternativa?

La percezione della pazzia è sempre stata la medesima col passare del tempo? 

Approfondendo la storia della pazzia, si può notare che dal Medioevo all’età moderna è cambiato radicalmente il modo in cui essa veniva percepita. Nel Medioevo il pazzo era considerato posseduto da “spiriti maligni”, venivano perciò tenuti per pazzi tutti coloro che eccedevano nella manifestazione dei propri sentimenti. Alle cosiddette persone indemoniate veniva vietato l’ingresso in chiesa e molto spesso, soprattutto le donne, venivano bruciate al rogo. 
Dopo il Medioevo, tra il XVI e il XVII secolo, però, si iniziò a considerare il pazzo come un diverso, e quindi ad emarginarlo. Venne infatti istituito l’Hôpital Général, in cui venivano rinchiusi i folli per essere curati, ma soprattutto perché non stessero a contatto con i sani. 
A partire dal’età moderna, seppur soltanto in letteratura, si iniziò invece a considerare il folle come una persona con qualcosa in più rispetto ai savi: la fantasia. 


Le cure per coloro che venivano definiti folli 

Nell’ '800 si iniziò a pensare alla pazzia come a una vera e propria malattia clinica, perciò si cercarono i metodi più idonei per curarla. Nell’Hôpital Général i metodi terapeutici in uso erano soprattutto delle docce fredde, la camicia di forza, le costrizioni, l'elettroshock e lo shock insulinico: essi non servivano realmente a curare la pazzia, ma facevano patire un tale dolore al pazzo che nel momento successivo egli diveniva più trattabile e tranquillo. 
Col passare del tempo, e con l’avanzare degli studi scientifici, questi metodi vennero aboliti, per passare, a partire dagli anni '50 del '900, agli psicofarmaci. Vi erano principalmente due tipi di pillole: una, come la chiameremmo noi oggi, antidepressiva, e una invece che fungeva da calmante, e cioè l’opposto della prima.

“L’elogio alla follia” di Erasmo da Rotterdam
Il filosofo che con più originalità parla di follia è senza alcun dubbio Erasmo da Rotterdam. Nell’Elogio della follia egli spiega che nella società in cui viveva erano considerati pazzi tutti coloro che cedevano ai sentimenti, poiché si pensava che i saggi non dovessero provare emozioni, ma pensare ed agire in modo distaccato ed obbiettivo. Erasmo critica duramente questo modo di pensare, e anzi in un certo senso predilige il pazzo al savio, perché afferma che un saggio senza alcuna emozione non potrebbe mai prendere una decisione giusta, ma sarebbe come una statua: all’apparenza bellissima, ma vuota e fredda all’interno. 

Don Chisciotte e Astolfo
Un altro grande personaggio da citare parlando di pazzia è senza dubbio Don Chisciotte, un vecchio diventato pazzo a furia di leggere romanzi e storie di guerra. Egli pensa perciò di essere un cavaliere e vede nelle cose più naturali (come nel celebre scontro con i mulini a vento) degli imponenti avversari da sconfiggere. 
Egli muore nel momento in cui gli torna il senno: analogamente, Ariosto smette di nominare Astolfo dopo che, andato sulla luna per cercare il senno di Orlando, ritrova anche il suo. 
Nelle due opere del ‘500, dunque, abbiamo due chiari esempi di come i pazzi, nella letteratura, siano considerati qualcosa di speciale, e di come, persa la pazzia che li contraddistingue, diventino talmente ovvi, scontati e quasi noiosi da non meritare di essere soggetto di ulteriore attenzione.

ALICE MASSI - Il mondo aristocratico e quello borghese nel Decameron


LO SPAZIO
Sono molti e diversi i luoghi in cui sono ambientate le novelle del Decameron, vengono infatti descritti palazzi, residenze di campagna, città e corti.
 Nella novella di Andreuccio da Perugia, ad esempio, vediamo l’affollata fiera di cavalli nella città di Napoli, gli stretti vicoli, le fogne ad aria aperta nella parte più malfamata della città, il porto , la chiesa maggiore frequentata più da ladri di tombe che da fedeli.  La novella si ambienta in una Napoli pericolosa e al contempo piena di vita, in un’epoca in cui la città era ancora un importante centro culturale. 
In un ambiente non borghese, bensì nobiliare, si svolge la novella di Federico degli Alberighi. La sua storia è ambientata inizialmente nella città di Firenze, dove si tengono ricevimenti, tornei e duelli, quindi, dal momento che Federico ha dilapidato le sue ricchezze ed è costretto a ritirarsi nel suo podere in campagna, qui si svolge la seconda metà della novella. La campagna viene descritta sia come un luogo di svago per i ricchi, sia come una misera fonte di sostentamento per i poveri. Qui Federico si occupa del suo orto, e sopravvive procurandosi il cibo con la caccia. Si può notare quindi l’associazione: città-ricchezza e campagna-povertà.  
Un’altra novella in cui vediamo due ambientazioni differenti è quella di Nastagio degli Onesti, che inizia nella città di Ravenna, in ambiente nobiliare, e si conclude poi in una pineta vicino a Classe, in un luogo aperto.  Se la città è un luogo di cultura, dove vivono i nobili e dove si sviluppa il commercio, la campagna è il luogo dove vivono gli ignoranti e lavorano i poveri, nonostante sia qui che si ritirano i nobili nelle stagioni più calde, per trovare sollievo nelle loro residenze fuori città.  Se alcune novelle sono ambientate in città mercantili , come Napoli, Firenze o Pavia, altre sono ambientate in corti e palazzi, come la novella di Agilulfo il re barbiere : la storia si svolge alla corte di Pavia, nel palazzo pieno di servitori vivono il re e la regina, in un ambiente ancora feudale.
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VIRTU’ E  FORTUNA
La concezione di virtù di Boccaccio è molto moderna per i suoi tempi, quasi rinascimentale: la virtù è intesa come l’abilità che si mette in campo per contrastare il caso. Per Boccaccio questa abilità è data dall’intelligenza, l’ingegno che ci permette di dominare la realtà e dominare la Fortuna. Il concetto boccacciano di fortuna è indubbiamente laico, in quanto la Fortuna, che può essere dominata o dominare la nostra vita, non è intesa come volere divino, bensì come “caso” che condiziona, volenti o nolenti, le vicende umane e il flusso degli eventi. La Fortuna è quindi una forza autonoma, che sostituisce la divina Provvidenza. Ne consegue che per Boccaccio la virtù consista nel saper governare la Fortuna, cogliendo le occasioni propizie e reagendo in modo positivo ai colpi della sorte avversa mediante l’arguzia, la furbizia, l’uso intelligente e abile della parola.
Nella novella di Frate Cipolla, ad esempio, il frate riesce a dominare la Fortuna, grazie all’abile uso della parola. Così anche Ser Ciappelletto, nella prima novella della prima giornata, riesce a volgere la situazione a proprio favore grazie al suo ingegno e alla sua abilità nel parlare, e riesce a dominare la realtà, fornendoci  un chiaro esempio di virtù boccacciana: saper governare la Fortuna, senza preoccuparsi della correttezza morale del fine o del mezzo. Ser Ciappelletto riesce a dominare il destino ingannando persino il rappresentante di Dio, per poi essere adorato come modello di santità cristiana, e seppellito in una cattedrale.

IL DENARO 

Nelle novelle di Boccaccio, il denaro ha spesso un ruolo chiave, poichè è causa di inganni e sventure. Boccaccio critica sia gli avidi, come Landolfo Rufolo, sia i dissipatori, come Nastagio degli Onesti. Infatti, sebbene Boccaccio ritenga che il denaro sia importante nella vita, dal momento che ne rimase a lungo privo, non approva gli avidi e gli scialacquatori, promuovendo invece una gestione oculata del denaro. Boccaccio presenta i nobili come dissipatori, ed i mercanti come avidi accumulatori. Per il Boccaccio, la virtù borghese consiste nel saper amministrare i beni e il denaro, cosa che non sempre i nobili sanno fare. Boccaccio non biasima chi, con l’inganno, accumula denaro, come Frate Cipolla o Madama Fiordaliso, anzi sottolinea che non è sbagliato trarre profitto da ogni situazione, anche mettendo da parte i valori morali.

CORTESIA e RICCHEZZA
Per Boccaccio, la cortesia non è più una caratteristica propria dei nobili che si acquisisce per nascita, bensì una nobiltà dell’animo che si ottiene tra alle proprie qualità personali. La cortesia è la virtù che rende l’uomo generoso della sua ricchezza e magnanimo verso chi lo merita. Per Boccaccio la cortesia è uno dei valori sui quali rifondare la società fiorentina; tuttavia, egli parla di una cortesia borghese, conciliata con l’abilità di amministrare il denaro.
 Infatti, Boccaccio intravede nella cortesia medievale, come quella di Federico degli Alberighi, un pericolo per le ricchezze che vengono rapidamente dilapidate.
 Secondo Boccaccio è perciò necessario conciliare la mentalità borghese con quella feudale: la cortesia, la magnanimità e le nobili qualità devono essere unite alla virtù borghese di saper amministrare i beni e il denaro. Per la mentalità mercantile, la massima virtù consiste nell’accumulare denaro e non farsi travolgere dai colpi della sorte, nell’indipendenza e nella laboriosità. Per la mentalità feudale ,invece,  la virtù consiste nella magnanimità, nelle prodezze guerriere, nel disprezzo del lavoro, del denaro e del risparmio. Il Boccaccio suggerisce quindi di unire gli aspetti migliori delle due concezioni di virtù: magnanimità e buona amministrazione del denaro.

LA PAROLA
In Boccaccio la parola ha un’importanza fondamentale, è il mezzo con cui si può esprimere la propria intelligenza, lo strumento che permette di volgere sfortunate circostanze a proprio favore.  Con l’abilità oratoria, tanto celebrata da Boccaccio in tutto il Decamerone, si può governare il caso e dimostrare la propria arguzia, come nel caso di Guido Cavalcanti o del cuoco Chichibio. Nella novella, il cuoco riesce a trarsi d’impaccio con il suo padrone, grazie ad una risposta arguta, evitando quindi una severa punizione. Guido Cavalcanti invece, sentendosi accerchiato da Betto Brunelleschi ed i suoi amici, li lascia di stucco con una sottile battuta, pronunciata la quale esce di scena.
 La parola dimostra le effettive capacità dei personaggi, la loro intelligenza e il loro spirito, e, come nella novella di Cisti il Fornaio, è in grado di porre allo stesso livello due individui di diversa estrazione sociale.

RISPETTO E DISPREZZO
Secondo Boccaccio, sono degni di rispetto tutti coloro che, grazie alla loro intelligenza, riescono ad approfittare di ogni situazione e dominare la Fortuna. Indipendentemente dalla correttezza del loro fine ultimo, Boccaccio apprezza nei suoi personaggi la prontezza di spirito e l’ingegno. Persino un truffatore assassino e bugiardo come Ser Ciappelletto viene apprezzato dall’autore, in quanto riesce a risolvere ogni problema grazie al suo ingegno, sebbene in modo del tutto amorale.
Boccaccio disprezza invece gli ignoranti, i pecoroni, gli stolti, i superstiziosi e i creduloni, tutti coloro, insomma, che si lasciano ingannare o dominare dagli eventi, che restano inevitabilmente vittime di raggiri a causa della loro stupidità o ingenuità. L’autore disprezza inoltre il clero, i sacerdoti della curia romana, che sono il simbolo della corruzione e del degrado umano.

ALICE MASSI - Anno domini 1630


Anno domini 1630

Morti violente e repentine, bubboni lividi sui corpi degli ammalati: la città è preda di un morbo sconosciuto.
Chi sussurra di una malattia proveniente dall’Oriente, chi parla di peste, chi di febbri maligne o pestilenti, ormai una cosa è certa: l’epidemia è inarrestabile. I cadaveri giacciono insepolti per le strade, nessuno che osa spostarli per paura del contagio, persino gli animali sono vittime del morbo che appesta non solo Bologna, ma anche le campagne ai margini della città.
Ormai da settimane siamo chiusi in casa, timorosi di ciò che potrebbe accadere se uno solo di noi si ammalasse.
Nella città vige la più completa anarchia: chi ruba nelle case dei defunti, chi beve e  mangia sfrenatamente, ormai privo di inibizioni, spazzate via dalla peste come foglie al vento. Troppo tardi abbiamo infine voluto ammettere la natura di questa malattia, troppo a lungo i medici e le autorità hanno parlato di una semplice febbre o infezione , invece di riconoscere questo morbo per quello che è: peste. Abbiamo mentito a noi stessi, fingendo che l’epidemia fosse dovuta a malefici, polveri o unguenti maligni sparsi da servitori del demonio. Abbiamo dato inizio alla caccia agli “untori”, per trovare un capro espiatorio che fosse responsabile del flagello che ha colpito la città. E ora, è troppo tardi per arginare le conseguenze della nostra insensatezza, è troppo tardi per arrestare il contagio.
Nella città sono rimasti più morti che vivi, e persino i monatti, che prima accorrevano numerosi per trasportare i corpi nelle fosse, seppellirli e bruciare gli oggetti infetti, ora sono troppo pochi per ripulire le strade dai cadaveri, che restano sdraiati davanti agli usci, le piaghe ben visibili come monito per i vivi.
Come temevano i governanti bolognesi, gli altri paesi e le altre città hanno troncato ogni traffico di persone e merci, sebbene avessimo a lungo evitato di rendere pubblica la gravità del contagio.
La situazione è disperata, tanto che mi domando  se anche noi, non ancora malati, potremo vivere a lungo. I ricoveri per i malati, costruiti nell’ultimo mese, non sono più sufficienti a ospitare tutti gli appestati; i frati e gli ecclesiastici, che con solerzia hanno assistito i malati, stanno ora morendo uno dopo l’altro, poiché anche solo il contatto con gli abiti di un infermo può causare la diffusione del morbo.
Questo flagello ha colpito non solo la città, ma si è esteso nelle campagne, dove il bestiame muore e i campi sono abbandonati nelle impietose mani del tempo.
 Sono poche adesso le processioni di penitenti, che pregano Dio di far cessare l’epidemia di peste, da lui mandata come punizione per le nostre iniquità.
Non vi è più invece alcun credo, alcuna moralità, nelle nostre azioni: ognuno vive come se fosse l’ultimo giorno prima dell’Apocalisse, chi prega, chi gozzoviglia intrattenendosi con donne, chi mangia e beve senza freni. I morti sono abbandonati anche dai parenti, i figli lasciati morire soli dalle loro stesse madri. Pochi sono i sacerdoti, e molti i defunti, tanto che ormai non vi sono più funerali, e, se per caso ne viene celebrato uno, è per un gran numero di morti, gettati insieme in un’unica bara.
Ohimè! Insieme al morbo si è diffusa anche la pazzia! Non vi è più alcuna carità umana né solidarietà tra i non appestati, la città è ora vittima del degrado dei suoi cittadini. Da solo viene lasciato morire chiunque manifesti i sintomi della peste: fiacchezza, febbre, polmonite, occhi lustri e bubboni doloranti all’inguine e sotto le ascelle.
 Così sono ridotti i miei concittadini, così è ridotta Bologna: nulla rimane della bella città che per lunghi anni fu sede papale, nulla rimane del suo antico splendore. In questo quadro di morte, null’altro posso fare se non pregare Dio; anche oggi il mio lamento è amaro: potessi tornare com’ero ai mesi andati, ai giorni in cui Dio vegliava su di me! Ora mi consumo, mi hanno colto giorni funesti. Che Dio allontani la disgrazia dalla mia famiglia, che porga l’orecchio alla mia preghiera!

mercoledì 15 febbraio 2012

E. MONARI - Frasi memorabili da "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore" di L. Sepùlveda:


1) Il narratore descrive la maniera in cui il protagonista, Antonio Jose Bolivar, si avvicina  alla lettura, maniera che rimanda al metodo di insegnamento per i bambini che iniziano la scuola elementare: leggere lentamente, lettera per lettera, per poi ripetere l’intera parola ad alta voce. Ripetendo lentamente, i concetti vengono assorbiti meglio nella nostra mente e rimangono bene impressi.
"....Antonio Josè Bolivar sapeva leggere, ma non scrivere......Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito.                                       Poi faceva lo stesso con la frase completa, e cosi si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine......"


2) Antonio viveva con gli Shuar, popolo nomade che abitava la foresta, ma non era un di loro. Per questo motivo, anche se Antonio li rispettava e viveva con loro, capitavano le volte in cui si allontanava e in questa maniera la mancanza che sentivano gli Shuar aumentava sempre di più. Non era uno di loro, questo era un dato di fatto, ma si era integrato come se lo fosse.
......”Così ogni tanto doveva andarsene, perchè - gli spiegavano - non era un bene che non fosse uno di loro. Desideravano vederlo, averlo accanto, ma volevano anche sentire la sua mancanza, la tristezza di non potergli parlare, e il salto di gioia che il cuore faceva loro in petto quando lo vedevano ricomparire…"


3) Nella stagione delle piogge, ad Antonio veniva data una donna che, come  tutti gli Shuar, si prendeva cura di lui . La donna lo lavava, lo coccolava e, cosa più importante, gli dava amore. Antonio si sentiva bene e apprezzato, e solo quando si allontanò dagli Shuar, iniziò a leggere romanzi d’amore, forse perché non riusciva più a provare l’amore sulla sua stessa pelle, ma nella sua mente ritornavano solo i ricordi.

….”Durante la sua vita tra gli Shuar non ebbe bisogno dei romanzi per conoscere l’amore; anche se non era uno di loro, era come uno di loro, e pertanto gli veniva offerta una donna nella stagione delle piogge. La donna lo conduceva alla riva di un fiume, lo lavava, adornava, intonando “Anents”, per poi tornare alla capanna ad amoreggiare. Questo era amore puro, senza possesso e gelosia.”

giovedì 2 febbraio 2012

ALICE MASSI - Suasoria: Orlando convince Astolfo a non andare sulla luna

Ricapitolando, correggimi se sbaglio: tu che sei il mio cugino più lontano al quale non ho mai rivolto la parola, e cui non devo alcun favore, vorresti andare sulla luna per recuperare il mio senno. Senza sapere bene quali prove dovrai affrontare e quali pericoli celi un pianeta così vasto e sconosciuto, tu, con mezzi assolutamente inaffidabili, ossia un ippogrifo e un carro trainato da cavalli alati, vorresti partire in missione per riportarmi la ragione, che io ho perso e che non ho intenzione di recuperare. 
Cugino, tutto questo affanno, per cosa? Quale sarà il tuo guadagno in questa impresa? Io non ho interesse alcuno a riavere il mio senno, e non te ne sarò certo grato, perché devi sapere che la pazzia è uno stato tutt’altro che spiacevole. Nessuno può biasimarmi se sono impazzito d’amore, e ora che sono folle posso sfogare il mio dolore senza che alcuno ne sia sconvolto, poiché non sono più cavaliere ma bestia, e dunque non reprimo ciò che sento, ma nessuno mi può sfidare a duello o criticare. 
Ah! La libertà della follia, il prezzo è caro, ma essa lo vale tutto. Ora che son folle non comprendo le difficoltà della vita e non lotto per migliorarla, ma vivo beato nell’ignoranza della mia misera condizione, che a me pazzo sembra così buona e conveniente. Chi è folle non vede oltre se stesso e non soffre inutilmente per cambiare ciò che è immutabile: il destino umano. Io ora sento furore e ira scorrere liberamente in me, non premono più dolorosamente contro gli argini, ma erompono e il sollievo è immenso. Chi vorrebbe tornare savio al mio posto? Cavalier Franco, tu che in parte mi comprendi poiché sei folle, vorresti tornare in te e recuperare la ragione, perdendo ogni spensieratezza? Tutta la creatività e la fantasia e la folle felicità, svanite in un soffio di dolorosa consapevolezza della triste realtà che ci circonda! 


La ragione è un grande peso per l’uomo, e tanto che più essa si perde sulla Luna, più sulla Terra siamo felici e in comunione con ciò che ci circonda. Infatti, come l’uomo primitivo, l’uomo folle, dopo un doloroso ma necessario momento di passaggio, torna in perfetta armonia con la natura e vive per se stesso senza doveri né pensieri. 
Cugino, davvero tu vorresti riportarmi il senno, e con esso il mio dolore? Ritornando savio, sarei tormentato dalla vergogna per le azioni compiute da folle, e come potrei più definirmi cavaliere o guardare in volto chi mi ha visto pazzo? 
Astolfo, questo viaggio sulla luna porterebbe solo sofferenza a me e a te, poiché è certo che, ritornato savio, sarei talmente oppresso dai sensi di colpa per tutto ciò che ho fatto, che mi ucciderei, e macchierei così di un grave peccato l’anima mia, pur di cancellare la vergogna. Rifletti bene, non partire, poiché dal tuo viaggio deriveranno certamente più danni che benefici.

ALICE MASSI - Controversia: “Il Principe deve utilizzare forza e astuzia?”


A-    Dunque, ci troviamo qui oggi per discutere della teoria politica di Machiavelli, secondo cui il Principe dovrebbe usare forza e astuzia, quando necessarie, per mantenere saldo e forte lo Stato, quindi per il bene collettivo. Egli afferma, infatti, che la politica è una dottrina a se stante, con leggi proprie, autonome rispetto a quelle della morale o della religione.


B-    Precisamente. Come dice Machiavelli, infatti, gli uomini tendono al male, sono egoisti e cattivi, per questo chi li governa deve tenerne realisticamente conto e agire di conseguenza, imparando a essere “non buono”, se ciò è dettato dalla necessità politica. Così, per un bene superiore, il Principe deve sapersi servire di entrambe le nature: umana e bestiale. E’ giusto che il Principe sappia mentire e non rispetti la parola data, se tale rispetto lo danneggia: «poiché chi meglio ha saputo farsi volpe, meglio è riuscito ad avere successo». E’ inoltre giusto che per mantenere integro lo Stato, si eserciti la forza e si uccidano alcuni, per il bene di molti.
A-    La tua posizione sarebbe inattaccabile, se non fosse che, al di là di un apparente realismo, nella teoria machiavelliana è presente un’utopia: la realizzazione del bene collettivo. Come la storia ci ha mostrato, ogni tentativo di applicare forza e astuzia per il bene di molti si è rivelato vano: infatti, questo bene supremo non si è mai raggiunto. Prendiamo come esempio i totalitarismi: sebbene i Capi di Stato abbiano utilizzato forza, violenza, ingegno e astuzia, non sono mai riusciti a concretizzare il sogno di uno Stato ben organizzato, forte e solido, i cui cittadini vivessero in pace e godessero di prosperità. Come dice il filosofo Karl Popper, i miglioramenti in uno Stato vanno fatti a piccoli passi, e non si può in virtù di un’utopia calpestare tutto ciò che si trova sulla propria strada. E’ vero che ai tempi di Machiavelli, quando ancora non si parlava di democrazia, la sua teoria aveva molti sostenitori, ed essa potrebbe essere valida, se davvero il male esercitato dal Principe evitasse un male maggiore, e creasse le condizioni di un ordinato e pacifico vivere civile. Tuttavia, poiché questo non avviene, e il fine di carattere superiore non si realizza nonostante le azioni del Principe, la teoria machiavelliana può essere considerata non idonea alla politica dei nostri giorni.
B-    Non idonea? Molti dei politici dei nostri giorni, al contrario, ammirano l’opera di Machiavelli e le sue teorie politiche. Quanti politici mentono e non rispettano la parola data, pur sembrando ancora giusti, onesti e degni di fiducia? E non è forse vero che la forza rende forte e rispettato uno Stato? La teoria di Machiavelli è valida proprio perché attuale e ancora applicabile.
A-    E’ innegabile che ciò che hai detto spesso accade in politica, ma oggi non si parla di potere assoluto così come faceva Machiavelli, non viene quindi applicata la sua teoria in senso proprio, ma solo alcuni aspetti ne sono ripresi dai nostri politici. Al giorno d’oggi, la forma di governo più diffusa è la democrazia, proprio perché si è confermata l’idea che il potere assoluto corrompe, e porta chi lo detiene a curare il proprio interesse, e non quello collettivo. Per questo la teoria machiavelliana ai giorni nostri non ha, in tutte le sue parti, un’applicazione: non porta alla realizzazione né  fine più elevato, ovvero la salvezza dell’ordine, né della sicurezza e della libertà dell’intera comunità organizzata in Stato.